Viterbo – “Di Veroli Letizia e Di Veroli Anna non hanno espresso lamentele o necessità, soltanto aspirano alla libertà, della cui privazione non sanno rendersi conto”. Un documento d’archivio che racconta la condizione degli ebrei viterbesi all’interno del carcere di Santa Maria in Gradi durante la seconda guerra mondiale. Dicembre 1943. Prima di essere deportati nei campi di sterminio nazisti.
Oggi il complesso di Santa Maria in Gradi è sede dell’università degli studi della Tuscia. Ieri, l’università ha scoperto una targa commemorativa in memoria dei dodici ebrei viterbesi deportati, detenuti prima nel carcere di Viterbo.
Viterbo – Il documento della questura
Il testo della targa. “In questo luogo, carcere all’epoca della repubblica sociale italiana e dell’occupazione nazista, furono detenuti dodici ebrei, già vittime dal 1938 della persecuzione razzista antisemita dello stato italiano, rastrellati a Viterbo e provincia nel 1943. Dieci furono deportati nel marzo 1944 prima nel campo di Fossoli, poi nei campi nazisti. Nove furono assassinati. Una sola persona fece ritorno. L’Università degli Studi della Tuscia li ricorda”.
Una testimonianza importante che vede per protagonista l’università degli studi del neo rettore Stefano Ubertini. E una nuova generazione di ricercatori, ad esempio Tommaso Dell’Era ed Elisa Guida, entrambi studiosi della Shoah, che si sono fatti anche parte attiva per costruire fattivamente una memoria della Shoah sul territorio della Tuscia. Prima di loro era praticamente assente. Oggi ci sono le pietre d’inciampo a Porta della Verità, il memoriale della Shoah a Tarquinia e la targa all’Unitus. E soprattutto Viterbo, senza neanche accorgersene, ha in qualche modo chiesto perdono alla comunità ebraica. Cacciata e perseguitata. E non va mai dimenticato che a tirare giù per le scale gli ebrei viterbesi deportati e sterminati sono stati né più né meno che altri viterbesi.
Viterbo – La cerimonia all’università della Tuscia
Il documento dell’archivio di Stato di Viterbo racconta le condizioni carcerarie degli ebrei viterbesi deportati e detenuti, nel dicembre 1943, nel carcere di Santa Maria in Gradi. Il documento è indirizzato al questore di Viterbo ed è stato scritto dal vice commissario Banti.
Viterbo – L’Unitus ricorda la Shoah
“Giusta le istruzioni da voi ricevute – il documento di Banti inizia così – ho intervistato gli ebrei associati al locale carcere e ho raccolto le seguenti notizie: Jader Spizzichino e la moglie Marta Cohen, desiderano vedersi più spesso di quanto è stato loro concesso ogni venti giorni. Sollecitando l’evasione della pratica riguardante il loro riconoscimento di non appartenenza alla razza ariana. Lo Jader chiede poi che gli sia corrisposta la pensione che percepiva quale funzionario del ministero dell’Interno a riposo, onde far fronte alle piccole spese consentite dall’ordinamento del carcere. Chiede inoltre che gli sia consentito di soddisfare alle proprie naturali occorrenze fuori della cella, dato che non riesce a vincere la repugnanza e l’umiliazione della latrina in comune. Desidera inoltre che gli sia concesso di poter ricevere un dizionario che è in deposito presso il carcere e che gli occorre per trascorrere il tempo meno oziosamente”.
E’ il 1943 e il carcere di Viterbo, che resterà a Santa Maria in Gradi per altri cinquant’anni prima d’essere spostato a Mammagialla, è un carcere speciale. Da lì sono passati diversi antifascisti. Tra cui Altiero Spinelli ed Emilio Sereni. Padri fondatori della Repubblica democratica.
Viterbo – L’Unitus ricorda la Shoah
“Il prof. Wolf Martin e la moglie Matilde – prosegue il vice commissario Banti – desiderano colloqui più frequenti. Sono vecchi e sofferenti e le loro condizioni di spirito sono molto depresse. Anche il professore vorrebbe non servirsi della comune latrina della cella. Non vorrebbe perdere la propria biblioteca che possiede nella sua abitazione di San Lorenzo Nuovo e che contiene manoscritti di una sua opera letteraria frutto di lunghi anni di lavoro e di studi. Desidera dei libri per vincere il tedio della reclusione e di essere inviato in un campo di concentramento dove poter vivere più a contatto con la propria moglie. Di Porto Angelo e la moglie Di Veroli Lalla desiderano vedersi più frequentemente”.
Attorno al carcere, nel 1943, c’è la guerra e l’occupazione nazista che durerà fino al giugno dell’anno successivo. Nel 1944 i bombardamenti aerei alleati raderanno al suolo la città di Viterbo, medaglia d’argento al valore civile. Oltre mille morti. In provincia i nazisti, come dimostra un documento dei carabinieri del 1944, fanno strage di civili e partigiani come in tutto il resto del Paese. Una strage tra Sutri e Bassano, un’altra a Blera. E poi, morti ammazzati ovunque.
Viterbo – Il ricordo dello sterminio degli omosessuali – Palazzo Anselmi
“Majer Arnoldo – va avanti a scrivere Banti – è molto depresso, lamenta la scarsezza del cibo che consiste nella somministrazione giornaliera di un minestrone e di un pezzo di pane. Desidera che gli sia data la possibilità di procurarsi qualche libro scritto in lingua tedesca. Moscati Angelo vorrebbe colloqui più frequenti con la madre. Anticoli Reale, anch’egli lamenta la scarsezza del cibo e la latrina in comune”.
Il carcere di Viterbo tornerà agli onori delle cronache trent’anni dopo la fine della guerra con una rivolta organizzata dai nuclei armati proletari detenuti nel penitenziario. Una rivolta che di fatto portò alla prima riforma del sistema carcerario italiano.
Sul territorio della Tuscia, a Vetralla per l’esattezza, fino al gennaio del ’43 c’era anche un campo di concentramento per prigionieri di guerra. Slavi e inglesi innanzitutto. Venne abbandonato perché stavano arrivando gli alleati. E nel 1943 era chiaro. Quindi i campi, nella Tuscia erano presti tre, oltre a Vetralla, anche Bolsena e Acquapendente, andavano smantellati. Quello di Vetralla è stato poi utilizzato da alcune brigate militari, tra cui la Sassari, prima di essere assaltato dalla popolazione che si portò via mobili, tegole e quanto poté. Dopo la guerra, il campo ha accolto invece i profughi e quelli rimasti senza una casa. Smantellato il campo di concentramento di Vetralla, molti detenuti finirono a Carpi. Come gli ebrei viterbesi nel febbraio, marzo del ’44.
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Infine, un ultimo passaggio, a conclusione della lettera scritta dal vice commissario Banti al questore di Viterbo. E non si sa, nell’ignoranza di non essere storici, quanto fosse consueto per un funzionario di polizia occuparsi delle sorti di uomini e donne condannati a morte. Sarebbe interessante, e renderebbe anche merito, indagare il ruolo avuto dalla polizia viterbese durante la deportazione. Perché dalla lettura dei documenti d’archivio, assieme a questo di cui si scrive, emerge un atteggiamento volto in qualche modo a rallentare, se non addirittura ostacolare, la macchina dello sterminio. Se così fosse, questo forse renderebbe merito anche al vice commissario Banti che si è fatto portavoce di necessità, bisogni e aspirazioni di uomini e donne che fascisti e nazisti consideravano per legge subumani.
Viterbo – La giornata della memoria a palazzo dei Priori
La conclusione della lettera è esemplare, di quello che in fondo è il bisogno più radicale di tutti. La libertà. Soprattutto quella di decidere delle proprie sorti. “Di Veroli Letizia e Di Veroli Anna – conclude Banti – non hanno espresso lamentele o necessità, soltanto aspirano alla libertà, della cui privazione non sanno rendersi conto. Viterbo, 23 dicembre 1943″.
Daniele Camilli
La lettera del vice commissario Banti al questore di Viterbo
Giusta le istruzioni da voi ricevute, ho intervistato gli ebrei associati al locale carcere e ho raccolto le seguenti notizie: Jader Spizzichino e la moglie Marta Cohen, desiderano vedersi più spesso di quanto è stato loro concesso ogni venti giorni. Sollecitando l’evasione della pratica riguardante il loro riconoscimento di non appartenenza alla razza ariana. Lo Jader chiede poi che gli sia corrisposta la pensione che percepiva quale funzionario del ministero dell’Interno a riposo, onde far fronte alle piccole spese consentite dall’ordinamento del carcere. Chiede inoltre che gli sia consentito di soddisfare alle proprie naturali occorrenze fuori della cella, dato che non riesce a vincere la repugnanza e l’umiliazione della latrina in comune. Desidera inoltre che gli sia concesso di poter ricevere un dizionario che è in deposito presso il carcere e che gli occorre per trascorrere il tempo meno oziosamente.
Il prof. Wolf Martin e la moglie Matilde desiderano colloqui più frequenti. Sono vecchi e sofferenti e le loro condizioni di spirito sono molto depresse. Anche il professore vorrebbe non servirsi della comune latrina della cella. Non vorrebbe perdere la propria biblioteca che possiede nella sua abitazione di San Lorenzo Nuovo e che contiene manoscritti di una sua opera letteraria frutto di lunghi anni di lavoro e di studi. Desidera dei libri per vincere il tedio della reclusione e di essere inviato in un campo di concentramento dove poter vivere più a contatto con la propria moglie. Di Porto Angelo e la moglie Di Veroli Lalla desiderano vedersi più frequentemente.
Majer Arnoldo è molto depresso, lamenta la scarsezza del cibo che consiste nella somministrazione giornaliera di un minestrone e di un pezzo di pane. Desidera che gli sia data la possibilità di procurarsi qualche libro scritto in lingua tedesca. Moscati Angelo vorrebbe colloqui più frequenti con la madre. Anticoli Reale, anch’egli lamenta la scarsezza del cibo e la latrina in comune.
Di Veroli Letizia e Di Veroli Anna non hanno espresso lamentele o necessità, soltanto aspirano alla libertà, della cui privazione non sanno rendersi conto.
Viterbo, 23 dicembre 1943
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