Voglio raccontare la mia storia perché chi di dovere capisca dove è necessario intervenire.
Martedì 6 ottobre, dopo una notte passata tra brividi di freddo e dolori fortissimi alla schiena, scopro di avere la febbre a 38,5. Chiamo il mio medico di base per farmi fare il certificato medico di malattia e farmi segnare il tampone per il Covid, che ho effettuato il pomeriggio stesso, accompagnata da mio marito, al drive in della Asl di Viterbo.
Giovedì 8 ottobre vengo contattata dall’azienda stessa: il tampone è positivo. Panico. Chiamo il mio medico lo informo e gli chiedo cosa devo fare, quale tipo di farmaci devo prendere. Mi segna un antibiotico e la Tachipirina all’occorrenza.
Rimango in attesa di un’ulteriore chiamata da parte della Asl che deve intervistarmi per risalire a tutti i miei possibili contatti, ma nel frattempo mi muovo da sola per avvisare amici e parenti affinché si mettano in quarantena. Quando mi chiama la Asl fornisco dettagliatamente tutte le informazioni sui contatti.
Nel frattempo fanno il tampone anche mio marito e i miei due figli e l’11 ottobre abbiamo comunicazione che anche loro sono positivi, ma fortunatamente asintomatici. Fino a quel momento i miei sintomi sono solo quelli di una brutta influenza, con in più tanta stanchezza. In più sembra che le cose stiano andando meglio. E invece il peggio doveva arrivare: durante la notte le cose precipitano, la febbre arriva quasi a 40. Mi sento stanchissima, senza energia. Non riesco a respirare perché l’aria che entra nei miei bronchi è come fuoco. Non lo so neanche se ho paura, perché mi sento troppo debole anche solo per capire se ho paura.
Mio marito mi controlla i livelli di ossigeno. Inizialmente sono ancora buoni, ma sono tanto stanca e fatico a parlare. Contatto il mio medico e gli comunico il mio peggioramento e chiedo quali altri farmaci io possa prendere: mi segna il Bentelan da 1 mg e uno sciroppo sedativo della tosse in aggiunta alla precedente terapia. In serata le cose però peggiorano ancora: l’ossigenazione è tra l’89% e il 91% di saturazione e i battiti per minuto stanno scendendo.
Mio marito prova a chiamare tutti i numeri del Toc della Asl che mi sono stati dati dal mio medico di base. Non risponde mai nessuno. Chiama il mio medico, ma non risponde neanche lui. Chiama il 118 per chiedere informazioni e sapere se mi devono venire a prendere. Gli passano un medico del Toc, l’unico che in tutta questa storia sia stato davvero utile.
Mi ha voluto parlare e ha voluto sapere che tipo di terapia stessi facendo. Sì è meravigliato che il mio medico mi abbia prescritto il Bentelan, perché nel caso del Covid ci vuole almeno il Deltacortene da 25 mg e vista la situazione anche la somministrazione dell’eparina a basso peso molecolare.
Mi comunica che quelli che sto vivendo sono proprio i giorni critici. Adesso ho paura, molta paura. Il medico del Toc mi dice che se voglio mi fa ricoverare, ma io non voglio, non credo di poter essere seguita meglio in ospedale, ho già letto che ci sono troppi ospedalizzati. Lui con calma e pazienza mi chiede se riesco ad andare in bagno senza avvertire la necessità di fermarmi a prendere fiato. Rispondo di sì.
Il mattino seguente ricontatto il mio medico, gli riferisco dell’accaduto e del consiglio terapeutico datomi dal medico del Toc. Non si rifiuta di prescrivermi quei farmaci, ma secondo lui mi dovrei far ricoverare. Gli chiedo di aspettare di vedere come va con la nuova terapia, rimaniamo che ci risentiremo. Nel frattempo tramite un’amica riesco a spedire la ricetta e ad avere i farmaci.
L’effetto positivo della terapia lo sento subito. Quando respiro non mi bruciano più i bronchi. L’ossigenazione migliora fino al 94% e anche i battiti per minuto migliorano, seppur con alti e bassi in questi dati. In serata mi richiama il medico di base e gli comunico che va meglio: in alcuni momenti l’ossigenazione è arrivata anche al 96%. Si meraviglia e rimaniamo di sentirci il giorno successivo.
Le successive 24 ore procedono tra fra alti e bassi, ma la respirazione pur non essendo al massimo, è comunque decisamente migliorata. Di nuovo il mio medico di base insiste però per farmi ricoverare e questo fatto mi crea sgomento: insisto nuovamente per continuare ancora a casa. Il tempo mi dà ragione: con la terapia consigliatami dal medico del Toc le cose vanno meglio, non ha senso andare in ospedale a occupare un posto che può servire ad altri.
Ad ulteriore colloquio con il medico di base chiedo chiarimenti sulla durata di terapia con l’eparina a basso peso molecolare e con il cortisone. Non mi sa rispondere. Da marzo ad oggi non si è minimamente informato sui vari protocolli per il trattamento del Covid. Inizio a chiedermi in che mani mi trovi. Mi liquida con un “Vediamo un po’”.
In tutto questo periodo mi ha contattata spesso un’altra dottoressa del Toc. Non ho capito la sua utilità, perché oltre a chiedermi come mi sentivo non ha mai saputo darmi la benché minima indicazione o il minimo consiglio. Però i contribuenti la pagano. Questa dottoressa mi comunica il 18 ottobre che il 20 io e i miei familiari dobbiamo andare al drive in per fare un altro tampone.
Chiedo come mi devo comportare se il tampone risulta negativo. Mi dice che a quel punto sono fuori quarantena, ma che il mio medico di base mi dovrebbe visitare per valutare la situazione e verificare eventuali danni polmonari che l’infezione potrebbe avermi lasciato.
Ebbene qui entriamo nella commedia dell’assurdo. Il 19 ottobre chiamo il mio medico di base, gli comunico che devo fare il secondo tampone il giorno seguente. Gli dico anche cosa mi ha riferito la dottoressa del Toc, ossia che in caso di esito negativo lui mi deve visitare. Mi risponde che lui mi visita solo da remoto, il che fa ridere (per non piangere) già così. Gli obietto che da remoto non può auscultarmi le spalle, non può controllare la gola. Mi risponde, stizzito “stai a casa e basta”.
Gli chiedo se per caso sta scherzando. Mi dice che non può rischiare di infettare mezza Viterbo per visitare me. Gli ribadisco che chiederò l’appuntamento solo se il mio tampone risulterà negativo e che mi presenterò in un orario concordato per evitare di contagiare altri, fermo restando che se il tampone è negativo non corro il rischio di contagiare più nessuno. Lui compreso.
A questo punto ammette che comunque lui non ha i dispositivi di protezione, e qualcuno alla direzione sanitaria della Asl deve spiegarmi come sia possibile che un medico di base sia in servizio senza Dpi.
Mi propongo di procurarglieli io pur di avere la visita: non sapendo più cosa inventarsi, diventa evasivo e mi dice che mi farà sapere poi. Dopo due ore mi comunica che si è preso una settimana di ferie perché è stressato dai troppi appuntamenti per i vaccini antinfluenzali.
Sono incredula! Non posso credere a ciò che sento. Pur di non visitarmi si è messo in ferie con una scusa puerile. Non è stato in grado di prescrivermi una terapia valida, ha solo eseguito quanto detto da altri senza preoccuparsi minimamente di informarsi e alla fine si rifiuta di visitarmi.
Questo medico noi contribuenti lo paghiamo, e purtroppo paghiamo – e anche profumatamente! – tanti medici di base che si stanno rifiutando di fare la loro parte. Dovrebbero vergognarsi a pensare a quanti professionisti in prima linea sono morti tra marzo e maggio in Lombardia e nelle zone più colpite dal Covid. Medici che non hanno abbandonato i loro pazienti.
Stiamo pagando tanti medici di base che da marzo ad oggi non si sono documentati sui protocolli Covid-19, che risolvono il problema facendo ricoverare i loro assistiti anche quando potrebbero essere seguiti a casa, aggravando così le situazioni degli ospedali.
Si stanno affollando i presidi, che sono al tracollo per mancanza di posti letto e per il personale sanitario che non basta mai! Tanti ammalati non riescono ad accedere alla diagnostica a causa dei disagi del Covid e poi abbiamo una classe medica di medicina generale che nella stragrande maggioranza dei casi si sta rifiutando di lavorare e si sta nascondendo dietro a scuse puerili.
Basta andare su Google e digitare farmaci usati nel trattamento del Covid-19: esce una schermata dell’Aifa su vari trattamenti che sono stati consentiti ma poi abbandonati per insufficienza di dati, quelli che sono ancora in uso. Il mio medico non ha fatto neanche questo, non ha fatto neanche una banale ricerca su internet e non ha verificato neanche che esistono e sono visibili a tutti i dati di siti autorevoli quali l’Aifa.
Il mio medico ha persino avuto da ridire sul fatto che per fare il tampone io e i miei familiari abbiamo dovuto abbandonare la casa per andare al drive in. Secondo lui sarebbero dovuti venire a casa. Forse ignora che che al drive in di Viterbo lavorano infermieri che hanno dato la disponibilità a fare anche questo servizio, oltre al loro normale lavoro in ospedale.
Il 20 ottobre ho fatto insieme a mio marito e ai figli il secondo tampone: al drive in c’era il santo medico del Toc che mi ha salvato la vita, oberato di lavoro per cercare di dare risposte esaurienti a tutti. Come al solito in Italia, uno lavora e 100 godono a non far nulla, ma colui che lavora va oltre ogni limite. Gli abbiamo chiesto di potergli parlare e ci ha fatto cenno con gentilezza di accostarci, che appena finiva al telefono avrebbe parlato con noi e con un’altra signora prima di noi.
Abbiamo aspettato. Finita la telefonata si è avvicinato alla signora prima di noi e chiedendole scusa per l’attesa l’ha ascoltata e ha risposto alle due domande. Terminato con lei, si è avvicinato a noi e di nuovo ha chiesto scusa per l’attesa.
Gli abbiamo raccontato la mia storia ed ha confermato che era lui effettivamente al telefono quella sera. Gli ho chiesto per quanto tempo ancora devo continuare con la terapia e come devo interromperla. Ha risposto con gentilezza e professionalità alle mie domande e poi mi ha chiesto da quanti giorni fossi malata. Mi ha tranquillizzata sul fatto che ormai sono fuori pericolo.
Io sono stata fortunata, ma vorrei che tutti conoscessero la mia storia per rendere i cittadini consapevoli del fatto che oggi le terapie per affrontare nella dignità della propria casa il Covid 19 esistono.
E che in Italia c’è una classe di medici di base che è ora che si assuma le proprie responsabilità e faccia il proprio dovere, perché uscire dal Covid 19 non deve essere un discorso di fortuna, ma deve essere un fatto legato alla competenza di chi ha fatto il giuramento di Ippocrate.
Se tutti i medici di base facessero correttamente il loro lavoro, probabilmente si potrebbero affrontare meglio la pandemia e l’emergenza Covid-19. Ovviamente ci sono anche medici di base che lavorano bene e che si informano, come il medico di base di mio marito che chiama quasi ogni giorno per sentire come va la situazione, ma non essendo il mio medico non poteva seguirmi.
Tuttavia oggi quando ha chiamato ha voluto sapere anche di me e ha voluto sapere anche di come il medico del toc mi aveva detto di finire la terapia: ecco questo è un medico che coscienziosamente e umilmente si informa ed è a disposizione dei suoi pazienti.
La Asl di Viterbo intervenga sui servizi territoriali: la lotta al Coronavirus si combatte anche così.
Emanuela Sernicola
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