Viterbo – Profetico, libero, lucido, poetico, intelligente, Pasolini fu con ogni probabilità l’ultimo grande intellettuale italiano capace non solo di leggere la realtà e di raccontarcela fornendoci una chiave di lettura mai asservita a logiche di partito, di ideologia o di corporazione ma anche di raccontarci quello che sarebbe avvenuto, quale fosse la strada che avevamo intrapreso e a quale destinazione portasse. Fu il primo a comprendere e a denunciare, voce che chiama nel deserto, che le logiche del conformismo, dettato in maniera subliminale dal potere della società dei consumi, altro non era che un totalitarismo ancora più subdolo (“nuovo fascismo”, lo chiamò) e ancora più totalizzante perché non reprimeva il dissenso ma, semplicemente, lo disinnescava alla radice.
In Petrolio, il suo romanzo incompleto e postumo immaginato nel silenzio della torre di Chia, l’ultimo tentativo di spronarci a cercare di cambiare il cammino che il Paese aveva intrapreso, ci racconta chiaramente di un popolo che ha perso la possibilità di sognare, di persone da cui non arriva più neppure uno sguardo di curiosità o di simpatia, la cui unica preoccupazione non è più quella di cercare la verità ma di essere impopolari.
Questa visione lucida della strada che stavamo percorrendo e il terribile dono, simile a quello Cassandra, di saper intuire con chiarezza quale ne fosse la destinazione furono, forse, il motivo per cui decise di vivere la maggior parte degli ultimi anni della sua vita in quella torre, in una dimensione contadina in cui ancora resistevano quei valori umani che altrove gli si sgretolavano sotto gli occhi.
Conobbe quella torre, con ogni probabilità, quando scelse le cascate del fosso Castello per girare la scena di Giovanni Battista nel Vangelo Secondo Matteo e se ne innamorò. “La torre di Viterbo che non riesco a comprare, nel paesaggio più bello del mondo”, scrisse. Riuscì ad acquistarla sei anni dopo. Per tutti noi, nel lessico quotidiano, quella torre si chiama ormai “la Torre di Pasolini”.
La notizia che questo pezzo importante, fondamentale, della storia di un uomo il cui pensiero e la cui arte sono patrimonio dell’intera umanità, sia finito sul listino di vendita di un’agenzia immobiliare come “casale” è di quelle che fanno stringere il cuore e non solo perché Stato, Regione o Provincia non si fanno avanti ora né si sono mai fatte avanti in passato per trasformarla, come sarebbe giusto, in un luogo di memoria e magari di riflessione ma perché è la dimostrazione pratica di quanta ragione avesse Pasolini se quella torre dovesse, chissà, diventare un agriturismo.
Sarebbe invece questa l’occasione, per la politica, di far finalmente pace con la figura di un uomo la cui lucidità artistica fu troppo spesso scambiata per provocazione, la cui onestà intellettuale fu bollata come “controversa”, la cui omosessualità fu, anche dai compagni di partito, “tollerata”, con la figura di un uomo di cui ancora oggi si stenta a comprendere l’oggettiva grandezza e lo sconfinato amore che aveva per questo Paese e per i suoi cittadini solo perché aveva la scomoda usanza di raccontare in ogni modo possibile la verità.
Salviamo quella torre, facciamo in modo che la torre di Chia resti, oggi e per sempre, “la Torre di Pasolini”: lo dobbiamo alla nostra storia, alla nostra cultura, alla nostra coscienza civile.
Alfonso Antoniozzi
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