Elisaveta Alina Ambrus
Viterbo – Feto nel cassonetto, per la verità dell’infermiere c’è da aspettare. C’è stato un cambio di programma. E’ saltato l’interrogatorio previsto ieri di Graziano Rappuoli, l’infermiere sessantenne di Tuscania imputato di omicidio volontario in concorso con Elisaveta Alina Ambrus. L’uomo, all’epoca in servizio all’ospedale di Belcolle, sarà sentito dopo il 23 febbraio. Per l’ennesima volta è stata invece citata a vuoto la Ambrus, le cui tracce si sarebbero definitivamente perse oltremanica.
Lei è l’ex ballerina di night 31enne d’origine romena che il 2 maggio di otto anni fa, era il 2013, gettò tra i rifiuti di un cassonetto del Salamaro il cadavere della figlia appena data alla luce. Secondo l’accusa inducendo il parto, al settimo mese di gravidanza, assumendo il Cytotec, un farmaco usato per gli aborti clandestini, acquistato con una ricetta falsa procurata dall’infermiere Graziano Rappuoli, difeso dall’avvocato Samuele De Santis.
Chi è Elisaveta Alina Ambrus
Nata in Romania il 31 dicembre 1989, la Ambrus aveva 23 anni quando nell’agosto 2012 è diventata madre per la prima volta, restando nuovamente incinta quando il primogenito, un maschio, aveva appena tre mesi. Se ne sarebbe accorta solo dopo essere tornata al suo lavoro da ballerina in un night club viterbese.
Rappuoli, come sempre del resto, era regolarmente in aula, pronto a farsi interrogare dal pm Franco Pacifici, ma l’esame è stato rinviato a data da destinarsi dopo che il difensore ha fatto notare di non avere ancora la disponibilità delle relazioni del collegio di tre periti nominati dal tribunale sugli effetti del farmaco. Da qui la decisione di rinviare l’udienza al 23 febbraio, giorno già fissato per sentire in contradditorio il medico legale Giancarlo Carbone, il ginecologo Marco Sani, il tossicologo Alfio Cimino, cui è stata aggiunta anche la consulente di parte della difesa Mariarosaria Aromatario.
A questo punto l’imputato sarà invece sentito successivamente e si proverà a citare nuovamente la Ambrus come testimone. Anche stavolta la madre non sarebbe stata rintracciata dall’Interpol. Le ultime notizie, dopo che la condanna a 5 anni per feticidio in appello è diventata esecutiva, erano che si trovava nel Regno Unito dove, in base ai trattati internazionali, avrebbe scontato la pena in un carcere londinese.
In Italia aveva fatto sei mesi di carcere preventivo, da maggio a novembre di otto anni fa, tornando in patria una volta liberata, dove all’epoca aveva un bambino piccolo, affidato ai nonni materni dopo la nascita, ad agosto 2012, appena nove mesi prima della drammatica morte della secondogenita.
Accusa e difesa, nel frattempo, si sono dette d’accordo, ieri, dubitando che tornerà mai a Viterbo, ad acquisire il verbale d’interrogatorio della donna nel fascicolo del processo in corso davanti alla corte dìassise presieduta dal giudice Ettore Capizzi, a latere Giacomo Autizi.
Feto nel cassonetto – La polizia in via Solieri, il 2 maggio di otto anni fa
“Non ci sono prove che Rappuoli sapesse che la Ambrus era incinta”
“Non ci sono prove che Rappuoli sapesse che la Ambrus era incinta e nemmeno che lei abbia preso il Cytotec e non sia stato invece un parto precipitoso”, disse all’udienza del 27 novembre 2018 il difensore dell’infermiere.
Dito puntato contro una lunga serie di presunte lacune investigative: esame approssimativo dei tabulati telefonici, mancati rilievi col luminol in casa della madre da parte della scientifica, mancato esame tossicologico sulla donna, mancata identificazione fotografica di chi ha comprato il farmaco “abortivo”, nessun approfondimento su eventuali responsabilità della coinquilina, nessuna ricerca di altri potenziali complici o testimoni.
“Dalle celle telefoniche – ha detto De Santis – emerge che il presunto complice quando la donna ha partorito non era a Viterbo, ma sulla strada tra Capodimonte e Marta. Se guardiamo i tabulati, emerge che lei il 2 maggio ha cercato altre persone prima di lui, chiamando alle 7,31 un numero in uso ai dipendenti di un ministero e alle 8,37 un uomo di Celleno. Oltretutto il mio assistito, la Ambrus, lo ha cercato all’una per farsi portare in ospedale, per messaggio, senza mai fare cenno al fatto che aveva partorito. L’ultima volta si erano sentiti due giorni prima, il 30 aprile, per parlare della ricetta, poi più nessun contatto”, ha proseguito.
“Tu non mi devi lasciare, sennò mi ammazzo, fammi avere la ricetta”
Sei i messaggi scambiati tra il 30 aprile e il 2 maggio dalla Ambrus con Rappuoli finiti nel fascicolo del processo. Nell’ultimo, inviato mentre stava in ospedale, la donna gli chiede mille euro per andarsene dall’Italia e non metterlo nei guai.
“Tu non mi devi lasciare, sennò mi ammazzo, fammi avere la ricetta”, si legge nel primo, inviato dalla Ambrus all’infermiere la mattina del 30 aprile. Nel pomeriggio la conferma di avere reperito il farmaco, grazie a una certa “Claudia”. “E’ così che si chiama la coinquilina, ma gli investigatori non l’hanno indagata in concorso, convinti che pur vivendo e lavorando insieme alla madre, non sapesse niente della gravidanza. E allora perché avrebbe dovuto saperlo l’infermiere, visto che l’aveva tenuta nascosta a tutti? Lui, quando l’ha portata in ospedale perché stava male, non sapeva che avesse assunto il farmaco e che avesse partorito. E neanche noi abbiamo la prova che abbia preso il Cytotec, perché la Ambrus non è stata sottoposta a esame tossicologico”.
“Manca la prova del luminol”
Agli investigatori la Ambrus avrebbe detto di avere partorito nel water, senza travaglio, dopo avere sentito lo stimolo a defecare, e che prima di farsi accompagnare in ospedale dall’infermiere aveva ripulito tutto.
“Manca la prova del luminol – ha fatto notare il difensore – perché la scientifica si è limitata a un sopralluogo senza rilevare tracce ematiche, seguito da una perquisizione della squadra mobile che ha rinvenuto un foglietto con scritto il nome del farmaco antiulcera usato per indurre il parto negli aborti clandestini. Ma non è una prova che lo abbia assunto e che non si sia invece trattato di un parto precipitoso. Non è insolito in una donna che ha già partorito pochi mesi prima. E non c’è la prova dell’esame tossicologico”.
Silvana Cortignani
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