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Viterbo – “Abbiamo analizzato sentenze e articoli di giornale ed è emerso che spesso la violenza di genere è raccontata in maniera distorta a causa del pregiudizio e degli stereotipi”. A parlare è la professoressa Flaminia Saccà, responsabile del progetto “STEP-Stereotipo e pregiudizio. Per un cambiamento culturale nella rappresentazione di genere in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nel discorso dei media”, realizzato dall’università degli studi della Tuscia, in partnership con l’associazione Differenza Donna ong e con il contributo della presidenza del consiglio dei ministri-dipartimento per le Pari Opportunità.
Il progetto, che verrà presentato oggi all’università della Tuscia nell’ambito della giornata di studi “Tre volte vittima. La rappresentazione sociale della violenza di genere”, parte da un’analisi di 273 sentenze e 16mila 715 articoli di giornali, tutti riguardanti il tema della violenza di genere. Lo studio ha messo in luce come spesso gli stereotipi e i pregiudizi di genere caratterizzino la rappresentazione e la narrazione della violenza maschile contro le donne, sia in ambito giudiziario che nel linguaggio dei media. STEP ha anche coinvolto magistrati, avvocati, forze dell’ordine e giornalisti in corsi di formazione.
Professoressa Saccà, vuole spiegarci come è nato il progetto ‘STEP-Stereotipo e pregiudizio. Per un cambiamento culturale nella rappresentazione di genere in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nel discorso dei media’?
“Il progetto STEP nasce nel 2018 quando abbiamo presentato con l’università della Tuscia capofila, in partnership con l’associazione Differenza Donna, un progetto di ricerca per il bando del Dipartimento delle Pari Opportunità della presidenza del Consiglio dei Ministri. Si trattava di un bando in attuazione della Convenzione di Istanbul con l’obiettivo di dare sostegno e diffusione alle prerogative della Convenzione. Nel nostro caso l’obiettivo era di cercare di individuare quelli che potevano essere gli stereotipi e i pregiudizi culturali in ambito giudiziario. Poi abbiamo allargato il tema, integrandolo con l’analisi degli stereotipi e dei pregiudizi sulla stampa.
Ci siamo prefissati questo argomento perché eravamo convinti che ci fosse una forte distorsione su come viene rappresentata la violenza di genere e che questo aspetto dipendesse da un ritardo culturale, anche rispetto ai codici che ad oggi sono piuttosto avanzati. Pertanto abbiamo analizzato 273 sentenze in materia di violenza di genere e 16mila 715 articoli nell’arco di tra anni (2017/2018/2019) di ben 15 testate nazionali e locali. Da questo studio sono emerse dinamiche piuttosto ricorrenti”.
Quali?
“Negli articoli di giornale dove si parla di violenza nei confronti della donna si riscontra, in maniera piuttosto trasversale in tutte le testate, l’assenza del colpevole, sia nei titoli che nel testo dell’articolo. Sembra che la violenza capiti, ma che non sia agita da qualcuno. Ad emergere anche un altro dato: molto spesso la donna viene descritta come vittima del troppo amore. Ma l’amore non uccide. Piuttosto è una cultura che uccide quando si ritiene legittimo che una donna sia una propria proprietà e non viene invece considerata come un essere autonomo, libero di scegliere con chi trascorrere la propria vita. Altro problema evidenziato è che, secondo la stampa, il reato più diffuso contro le donne è lo stalking. Nella realtà però non è così perché, secondo i dati diffusi dal ministero dell’Interno nel 2019, il reato più frequente è quello della violenza domestica. È quindi preoccupante che il reato più diffuso non venga in realtà percepito come tale”.
Dai dati emergono altre differenze?
“Direi piuttosto che il quadro intero è diverso. Mi spiego meglio. Secondo i dati del 2019 del Ministero degli Interni sulla violenza contro le donne, il 51,1% di violenze avveniva in ambito familiare (8mila 260 casi), il 30,7% riguardava casi di stalking (4mila 959 casi), la violenza sessuale si attestava al 17,1% (2mila 762 casi), gli omicidi di donne per mano maschile riguardavano lo 0,7% del totale (circa 111 casi), la tratta e la schiavitù lo 0,4% (64 casi).
Il quadro tracciato dalla stampa era però completamente diverso. Secondo gli articoli analizzati, lo stalking costituiva il 53,4% degli articoli su questo tema; l’omicidio di donna per mano di uomo il 44,5%; la violenza domestica il 14% degli articoli; lo stupro il 9,8%. Chiaramente la stampa non è l’Istat o la procura, ma questi dati fanno comunque riflettere. Anche perché la percezione che rimane sull’opinione pubblica deriva molto di più da quello che scrivono i giornali, piuttosto che dai dati della procura. Nell’opinione pubblica resta quindi una percezione distorta, dove quasi non esiste la violenza domestica, che invece sappiamo essere un problema molto serio. Anche perché spesso la violenza domestica, quando viene trattata dalla stampa e spesso dalle procure, viene fatta rientrare in una certa logica all’interno della coppia, come se si desse per scontato un litigio anche violento. È come se ci si possa aspettare un episodio del genere nella dinamica di coppia, quando invece dovrebbe essere stigmatizzato. Questo è un problema culturale”.
Come si può invertire questa tendenza?
“Per cambiare una cultura, così diffusa e radicata, bisogna innanzitutto evidenziare che c’è un problema e prenderne le distanze. Bisogna partire dal fare un’analisi per cercare di evidenziare i punti critici di questa narrazione e provare a ribaltarla. In questo senso, con l’associazione partner Differenza Donna, abbiamo dato il via a un’intensa attività di formazione rivolta a magistrati, avvocati, forze dell’ordine e giornalisti. Sono stati organizzati dei seminari per confrontarci su come viene raccontata la violenza di genere e il feedback che ne è derivato è stato molto interessante.
Per esempio con i giornalisti abbiamo analizzato titoli che ci sembravano essere particolarmente distorti e le devo confessare che non è stato facile, né per i giornalisti né per noi relatori, arrivare a riformulare la titolazione perché la cultura ha i suoi aspetti profondi e radicati. Per cambiare cultura si può però partire dal riflettere, dall’analizzare; poi si passa alla scrittura che si dovrebbe concentrare sui fatti, non sulla percezione o sulla propria narrazione. Bisogna cercare di evidenziare gli stereotipi e cercare di evitarli”.
Cosa è emerso invece dalle sentenze analizzate?
“Nelle sentenze è emerso che spesso a fare la differenza è il linguaggio usato e la contestualizzazione culturale della dinamica dei fatti e dei rapporti tra le persone. Gli stereotipi culturali incidono molto nelle sentenze e, come denunciato dalle raccomandazioni della Cedaw, questo tipo di distorsione culturale sottrae giustizia alle vittime. Spesso i giudici si rifanno non tanto al codice, quanto all’interpretazione delle leggi mediante la propria cultura di appartenenza che tende a distorcere i fatti. Tutto questo si traduce in minore giustizia per le vittime”.
Dal titolo del progetto, si evince un’analisi portata avanti anche con le forze dell’ordine. È corretto?
“Sì, è corretto. Una parte del progetto si è concentrata sul confronto con le forze dell’ordine e con alcune donne che hanno rilasciato delle interviste. In specifico in diversi seminari formativi ci siamo rapportati con le forze dell’ordine, proprio per capire come nell’ambito della denuncia si debba fare attenzione agli stereotipi. Spesso infatti le donne raccontano che denunciano un episodio ma il tutore dell’ordine tende a minimizzare. Questo avviene come frutto di uno stereotipo che vede come fisiologica la violenza di genere dentro la dinamica di coppia. Ovviamente il tutore dell’ordine agisce in buona fede, ma può essere deleterio per la donna. È inoltre emerso che per la donna può essere di grande aiuto il fatto di avere qualcuno accanto al momento della denuncia, magari una persona affiancata da un centro antiviolenza”.
Come mai questo seminario si intitola “Tre volte vittima. La rappresentazione sociale della violenza di genere”?
“Abbiamo scelto questo titolo perché crediamo che nella violenza contro le donne il grado di vittimizzazione possa arrivare a tre livelli. Il primo si concretizza nel momento della violenza fisica; il secondo quando la vittima viene presentata dalla stampa come corresponsabile della violenza, ossia quando invece di mettere l’accento su ciò che ha fatto lui, si enfatizza quello che ha fatto o non ha fatto lei; la terza vittimizzazione si manifesta invece nelle aule di tribunale quando si opacizza in qualche modo l’azione del violento e si finisce di fatto con alleggerirne la posizione in sede giudiziaria. Il terzo grado di vittimizzazione è quando alla donna viene a mancare la giustizia per quello che ha subito”.
Maurizia Marcoaldi
– “Tre volte vittima, la rappresentazione sociale della violenza di genere”
