Francesco Mattioli
Viterbo – Crisippo, Gorgia, Cicerone, Bruto, Plotino, Agostino, Hobbes, Locke, Hume, Rousseau, Spinoza, Kant, Hegel, Voltaire, Marx, Jaspers, Fromm fra i tanti, o semplicemente Delacroix che la dipinge mentre guida il popolo.
La libertà. Concetto continuamente sulla bocca di tutti e declinato nelle più varie fogge, madre prolifica del liberalismo, del liberismo, del liberty, del libero arbitrio e distinguibile soprattutto fra quella rivendicata dal soggetto per sé stesso, che sarebbe pressoché illimitata, e quella concessa agli altri, che sembrerebbe invece piuttosto circoscritta.
Ma facciamola corta. La libertà si incrocia con la democrazia, quindi con la politica e con il funzionamento della società.
Così, vivendo in un consorzio umano, a meno di non ricorrere alla prepotenza, alla violenza e all’oppressione – sistemi peraltro non certo sconosciuti alla Storia – viene inevitabile ricorrere all’abusato detto “la mia libertà finisce dove comincia la tua”, assegnato variamente a Voltaire, a Martin Luther King e spesso ripetuto nelle assemblee condominiali.
La libertà insomma non può essere declinata in termini assoluti; altrimenti si trasforma in “licenza”, cioè in un comportamento egoistico che vede solo “il suo” e si disinteressa degli altri.
La licenza appare incompatibile con quel “patto” che costruisce la convivenza sociale, a meno che non venga trasformata in obiettivo di gruppo, o di classe, trasformandosi in anarchia. La Storia si è incaricata di dimostrare che l’anarchia non è praticabile, perché conduce alla guerra per bande e all’homo homini lupus di Hobbes, oppure ad una dittatura del /dei più forte /forti.
Nella democrazia, che è la forma eticamente e organizzativamente più avanzata della società umana, l’equilibrio tra protezione degli interessi individuai e protezione di quelli collettivi è sempre instabile, perché quotidianamente noi sperimentiamo la difficoltà a conciliare perfettamente gli uni con gli altri.
Ne scontano le conseguenze non solo due persone che bisticciano fra loro al semaforo, ma soprattutto i politici, che quando sono al potere sono costretti a governare gli interessi collettivi scontentando i singoli e quando sono all’opposizione tendono a rivendicare quelli individuali per rastrellare consensi. Sempre in nome delle democrazia e delle libertà, beninteso.
Con la pandemia, i nodi vengono al pettine. Perché la scienza e il benessere pubblico ci ordinerebbero determinate soluzioni di interesse collettivo, che tuttavia prevedono inevitabili limitazioni della libertà, della scelta individuale. Facendola breve: posso credere che la mascherina non serva a niente, non la metto, ma così rischio di infettare gli altri; oppure, non voglio ospitare vaccini nel mio corpo, ma così impedisco il raggiungimento dell’immunità di gregge.
Lasciamo stare i complottisti; con tutto il rispetto dovuto alla diversità, li ritengo ignoranti nel merito e irresponsabili nella loro socialità.
Il problema vero è che in democrazia e nel rispetto della libertà individuale non ci può essere l’obbligo di curarsi, o di curarsi nel modo che la scienza e la società intendono. Ma le cose stanno proprio così? Un conto è il diritto all’eutanasia, che non danneggia nessuno; un conto è disinteressarsi della propria salute arrecando potenziali danni agli altri.
E’ possibile che in democrazia si possa limitare la libertà costringendo a fermarsi al semaforo con il rosso, a pagare le tasse e ovviamente ad astenersi da violenze, ruberie e assassinii, e non si possa limitare la possibilità di contagiare imponendo degli obblighi?
E’ possibile che si possa imporre di indossare la mascherina nei luoghi chiusi e non si possa imporre la vaccinazione a chi ha a che fare istituzionalmente (sanitari, insegnanti, commercianti) con il prossimo? Illustri costituzionalisti diranno che sono cose differenti. Peccato che ad essi si oppongano i medici, che dicono “cosa accade se” e persino i sociologi che descrivono “cosa serve per fare che cosa”.
Ma non è neanche questo il punto. Il punto vero è che la politica, per interessi elettoralistici, su questi temi è strabica.
Per esempio, è strano leggere i peana a favore della libertà di scelta di chi fino a ieri avrebbe rimandato via a pedate coloro che si azzardavano a manifestare i segni di una cultura diversa della nostra; come è strano osservare i sacerdoti dell’ ”uno vale uno” allinearsi alle scelte degli esperti.
E’ strano? In realtà no, è che la politica vive di consensi, specie di facili e volubili consensi; imoltre, deve “governare” e quindi fare scelte che sono di opportunità, comprese quelle della difesa del diritto a lavorare, a guadagnare per sopravvivere. Se dipendesse dalla scienza, probabilmente molte libertà sarebbero temporaneamente e severamente sospese. Niente morti in corsia? Certo, ma molti morti di stenti, molti morti di male di vivere…
Insomma, intorno alla libertà ruotano la complessità, le incertezze, le contraddizioni del nostro tempo, a dimostrazione che le cose che valgono di più – come la democrazia – sono anche quelle che costano di più.
Una ricetta ci sarebbe, per gestire bene la libertà. La indicò Eric Fromm, ispirandosi paradossalmente (vista la sua formazione intellettuale) al famoso palestinese di duemila anni fa (per citare Carlo Galeotti): assumersi la responsabilità delle proprie azioni, rispettare gli altri, avere uno spiccato “senso del noi” che ci rende liberi solo se siamo e sappiamo stare assieme agli altri.
Dubito che ci si arrivi. Per alcuni è troppo idealista; per altri è troppo socialista; per altri ancora, troppo clericale; per certuni è addirittura orwelliana; per altri infine, semplicemente incomprensibile.
Peccato cha abbiamo l’Rt di nuovo vicino a uno. Per qualcuno un prezzo congruo pur di coccolare la propria personale libertà. O licenza che sia.
Francesco Mattioli
