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Viterbo – Che è successo a Glasgow?
Temo che Greta Thunberg non abbia tutti i torti, quando asserisce che a Glasgow non si è risolto quasi nulla. Il fatto di sbandierare ai quattro venti che finalmente c’è un accordo tra Stati Uniti e Cina sulla consapevolezza di dover affrontare e limitare l’inquinamento atmosferico da CO2, appare come una mezza verità. Di tanto rischio si sapeva dal Cop 21 di Parigi di sei anni fa e ora semmai si è ribadito in modo più esplicito l’impegno tra i maggiori paesi inquinatori a non superare gli 1,5 gradi di temperatura media mondiale.
La scienza ha posto il limite massimo di non ritorno al 2050; dopo, sarà la catastrofe ambientale. In Europa, dove ci teniamo ad essere bravi, contiamo di realizzare la “decarbonizzazione energetica” già a partire dal 2030. Qualcuno si chiederà: perché non si devono superare gli 1,5 gradi? Semplice: perché a 2 gradi non solo si va incontro a fenomeni metereologici e oceanici ancora più gravi di quelli già patiti (tipo lo sfacelo dei ghiacci alpini, ma anche di quelli polari, i trenta gradi estivi nella tundra siberiana, le Maldive sott’acqua, i cicloni in Sicilia, ecc.), ma si rischia una esplosione delle migrazioni dal sud del mondo con inevitabili conflitti di varia natura: politica, sociale, economica e culturale. Peraltro, a casa nostra, già con un aumento di 1,5 gradi numerose stime concordano nel prefigurare tempi duri per l’economia e il turismo…
Questi non sono gli allarmi di opinionisti e attivisti noglobal o di ambientalisti anarco-insurrezionalisti, ma della scienza ufficiale nelle sue varie declinazioni disciplinari.
Tuttavia, la Russia e la Cina hanno spostato il loro limite ad un generico 2060, l’India sarà disponibile per il 2070 e anche l’Australia, grande produttrice di carbone, storce il naso. Considerando che un terzo dell’inquinamento globale proviene dalla Cina, seguita da India e Stati Uniti e che l’Europa incide per meno del 10%, sorge spontanea la domanda: come si fa a mantenere l’impegno di non superare nei prossimi anni gli 1,5 gradi di aumento medio del riscaldamento globale con tutte queste eccezioni? Senza contare i paesi dell’Opec, che sui combustibili fossili come il pettrolio – un altro dei grandi responsabili dell’inquinamento atmosferico – fondano la propria ricchezza.
Il quadro quindi è complicato. L’Europa oggi predica bene ma ha razzolato male in passato: fin dagli anni ’60, ha cominciato a decentrare la produzione industriale di base verso i paesi del cosiddetto Terzo Mondo: chimica e siderurgica in primis. La motivazione ufficiale era quella di portare l’industria, quindi lo sviluppo, nei paesi poveri; la realtà è che: a) si riduceva del 70% il costo del lavoro; b) si allontanavano le fonti di inquinamento ambientale dai propri confini, sotto la pressione di una opinione pubblica sempre più allarmata. Quindi, qualche responsabilità ce l’ha anche quell’Occidente che oggi sembra voler dettare l’agenda della decarbonizzazione con tanta disinvoltura.
Insomma, tutti sembrano disposti a guardare responsabilmente al futuro, poi ognuno non solo custodisce i propri scheletri nell’ armadio ma, avanzando giustificazioni d’ogni sorta, chiede che sia fatta un’eccezione per il proprio caso. Le soluzioni condivise così diventano minimali e di fatto non risolvono i problemi, neppure quelli urgenti. A ben vedere tutto ciò accade anche nelle più banali questioni quotidiane, specie in Italia, paese dove ogni individuo si ritiene un caso a parte, meritevole di una eccezione, che si tratti di parcheggiare, di evitare il vaccino o di difendere il proprio territorio in prospettiva Nimby.
Ma come azzerare la produzione di inquinanti atmosferici?
E qui va aperto un secondo fronte di discussione. Riguarda da vicino la Tuscia.
2030: un appuntamento al buio?
Non starò a ripetere in toto i dati ormai resi pubblici dalla stampa, specie quelli che emergono da una corposa inchiesta pubblicata da Michela Gabanelli su Il Corriere della Sera, utilizzando peraltro fonti ufficiali. Ma qualcosa va sottolineato.
In Europa la cosiddetta transizione energetica, in coerenza con gli obiettivi comunitari, chiederà a ciascun Paese dell’Unione di produrre entro il 2030 energia pulita e rinnovabile in una quantità ben superiore a quella che attualmente è prodotta dall’Europa intera. Questa energia può provenire solo da impianti fotovoltaici, eolici, geotermici e, in parte minoritaria, dagli impianti idrici; inoltre, sarà d’aiuto l’economia circolare, quella che pratica il riciclo dei materiali.
Ma ci sono due criticità oggettive: la prima, l’aumento del fabbisogno di elettricità, dovuto fra l’altro al passaggio dai motori a combustione interna a quelli elettrici; la seconda, la necessità di immagazzinamento dell’energia nei periodi di mancanza di sole o vento, quindi con la proliferazione di batterie, peraltro ancora oggi inquinanti e molto costose per l’uso di materiali rari come litio e cobalto. Aver fissato al 2030 la fine della carbonizzazione in Europa è quindi una sfida, una scommessa, in parte persino fatta al buio: perché è affidata ad una rapida realizzazione di migliaia di impianti fotovoltaici ed eolici – politica e burocrazia permettendo – e ad uno sviluppo tecnologico non ancora soddisfacente, ma che si spera sia molto rapido, sebbene abbia comunque i suoi tempi.
Peraltro, nessuno si illuda di andare a rivedere i comportamenti individuali e collettivi per favorire il risparmio energetico. Tanto per fare un esempio, l’idea di cambiare la mentalità della gente nell’uso dell’automobile, incrementando quello promiscuo a spese della proprietà e dell’uso individuale, è solo un sogno perché va contro la logica generale dei consumi e della qualità della vita. Il risparmio si fa su un piano qualitativo, piuttosto che quantitativo. Le case automobilistiche promettono di produrre solo vetture elettriche nel giro di pochi anni, non di produrre auto ad uso condominiale… Inoltre, un ridimensionamento dell’industria automobilistica, con tutto l’indotto che produce, sarebbe una catastrofe occupazionale di dimensioni planetarie; e già con il passaggio all’elettrico e ad una logica produttiva 4.0 c’è il rischio di una inquietante riduzione dell’attività d’impresa e della manodopera…
Tutto il resto è fuffa appartenente al luddismo antindustriale della cosiddetta “decrescita felice”, che è antistorica, illogica, al massimo pittoresca, quando non si trasforma in complottismo d’accatto. A questo proposito, va ricordato che tra i responsabili della diffusione di polveri sottili nell’atmosfera urbana c’è anche l’uso dei camini a legna, sbandierati talvolta come alternativa ecologica all’uso degli impianti di riscaldamento a gas…
Sì, ma non nel mio giardino
La necessità di velocizzare la produzione energetica pulita si scontra peraltro con la realtà attuale dei fatti. La già citata inchiesta della Gabanelli denuncia che varie centinaia di progetti di impianti sono fermi in Puglia e oltre cento nel Lazio, alcuni anche da otto anni. La ragione? Lentezze burocratiche, certo, ma soprattutto veti politico-amministrativi incrociati tra Stato, Ministeri, Regioni ed enti territoriali vari riguardo agli aspetti di natura agricola e latamente paesaggistica. La Regione Lazio si è imposta una pausa di riflessione, di concerto con il Ministero dei Beni Culturali, per individuare le aree idonee ad ospitare impianti fotovoltaici ed eolici, in realtà tirata per la giacchetta da sindaci, intellettuali, agricoltori preoccupati di vedere alterato da pale e pannelli le cartoline in cui pensano di vivere. Specie per quel che riguarda il Viterbese.
La prospettiva contraria sarebbe che ogni centro urbano o consorzio di centri urbani avesse la sua dotazione energetica pubblica, affiancata da quella delle aziende produttive. Ciò significa inevitabilmente far convivere nello stesso scenario campanili, torri antiche, villaggi a presepe, boschi, foreste, terreni a coltura agricola e silvopastorale assieme a gigantesche pale eoliche e ad ampie distese di pannelli fotovoltaici. Ma occorrerebbe superare senza troppi patemi quella “weltanschauung”, soprattutto di ispirazione neoclassica, che non tollera intromissioni moderne nell’estetica del paesaggio. Si fa presto a recarsi su un affaccio ad un bel panorama con la mente rivolta a “La tempesta “di Gorgione o ai papaveri di Monet e poi sentenziare: “qui niente pale eoliche e pannelli fotovoltaici”. Già, ma il telefonino con cui lanci il tuo nobile messaggio al colto e all’inclita, con cosa lo alimenti? Con l’elettricità prodotta dalla centrale a carbone di Torrevaldaliga Nord…?
In realtà, un conto è esprimere preoccupazione per l’ipotesi di una invasione anche solo visiva di aree di altissimo pregio paesaggistico (come il Colle di S.Pietro a Tuscania) che va comunque respinta; e un conto è considerare off limits gran parte del territorio per motivi naturalistici ed estetici soggettivi o anche soltanto agricoli. Peraltro, una pala eolica alta cento metri (ma ce ne sono di alte il doppio) la vedi da cinquanta chilometri di distanza: se disturbasse l’estetica del paesaggio, di ogni paesaggio, non la metteresti da nessuna parte…
Una soluzione condivisa starebbe nel limitare l’uso di suolo, specie per gli impianti fotovoltaici, utilizzando le aree già degradate o “usate”. Ottimo: ma non basterà. Occorre essere realisti: siccome la Storia cambia e i bisogni crescono, sarà necessario adeguare anche la nostra percezione del bello, che è un concetto storicamente variabile, alla realtà che ci circonda. Così, più di un sacrificio – anche fosse soltanto “visivo”- andrà comunque fatto, e anche presto, senza farsi prendere da una deleteria sindrome Nimby che condurrebbe ad una guerra senza quartiere tra città, paesi e paeselli. Semmai sarà soprattutto necessario interpellare la scienza per far convivere al meglio, e in mutuo sostegno, impianti di produzione di energia rinnovabile e agricoltura, che costituiscono ambedue risposte necessarie a garantire una moderna qualità della vita.
Facciamo un giochino. Energia pulita per la Tuscia, eolico e fotovoltaico: dove?
Viterbo? Mai, è tutto vincolato; ti fanno storie per un edificio termale, figurarsi per una pala eolica! Non intorno al lago di Bolsena, oltre tutto Piansano ha già dato; Tuscania? Per carità! Cimini? Ma siamo matti? Valle dei Calanchi? Non scherziamo! Civitacastellana, area falisca? Oh, mio Dio!!! Montalto, Tarquinia? Addio agricoltura! Barbarano? Lì, proprio no. Torre Alfina? Sarebbe uno sconcio! Beh, allora proviamo con i confinanti… Maremma grossetana? Ma dai, non se ne parla proprio, manco l’autostrada vogliono! Amiatino, colline senesi? Non ci pensate neppure! Pian di Giorgio, Orvieto? Che fai, provochi? Civitavecchia? Ma come, dobbiamo già smantellare quell’orrenda ciminiera…
Purtroppo il dibattito ambientale è pieno di contraddizioni, specie se ci si impegna con posizioni assunte per partito preso. Una per tutte. Un indicatore di inquinamento urbano è considerato il tasso di motorizzazione: più automobili, più aria irrespirabile. Premesso che ormai da almeno dieci anni circolano auto che inquinano sempre meno, e tutt’altro che ammesso che uno strumento legato alla qualità della vita e alla libertà individuale di spostarsi a piacimento sul territorio possa essere considerato un fattore penalizzante: come si spiega che, nelle graduatorie statistiche di Legambiente Viterbo sia al centounesimo posto per tasso di motorizzazione e tuttavia al tredicesimo posto per qualità dell’aria? Come minimo, occorrerebbe fare dei distinguo nelle relazioni di causa ed effetto, magari considerando il clima, le modalità di spostamento sul territorio, le caratteristiche urbane, ecc.; ed evitando di prendere in considerazione indicatori fondati o valutati su criteri di carattere prevalentemente ideologico…
Guarda chi si rivede…
Comunque la si veda, sarà bene in ogni caso concentrarsi anche su un ulteriore allarme.
Se l’Europa avrà difficoltà a “decarbonizzarsi” entro il 2030 con l’energia rinnovabile, la prospettiva nucleare è dietro l’angolo. Peraltro già ben praticata in molti paesi dell’Unione.
Così anche in Italia, qualora per la resistenza sostanzialmente Nimby alla diffusione delle fonti energetiche rinnovabili si restasse pericolosamente indietro nel processo di contrasto al riscaldamento globale, qualcuno rispolvererà le centrali nucleari; di certo, pulite, efficienti, oggi oltre tutto scarsamente intrusive nel paesaggio. Ma potenzialmente pericolose, scorie comprese.
Il fatto che importiamo energia elettrica dalle centrali nucleari francesi di ultima generazione potrebbe spingere a rivedere l’atteggiamento antinucleare espresso dal Paese negli anni ’80 e per certi versi riconfermato dalla lotta della Tuscia per negarsi al piano di installazione di un deposito di scorie radioattive. Quindi, visto che siamo ricchi di sole e di vento, forse sarebbe meglio essere più tolleranti per una pala eolica e uno specchio fotovoltaico che rischiare di trovarsi prima o poi vicino ad una ridente centrale atomica…
D’altra parte, la botte piena e il partner ubriaco (rispolverando in salsa ≠metoo un vecchio detto popolare) sono inconciliabili. Delle due l’una, e comunque la si veda, meglio il male minore.
Personalmente, di fronte alla necessità urgente di contenere il riscaldamento globale, preferisco che sia offeso il mio senso estetico costruito sui modelli neoclassici di un Winckelmann e su quelli romantici di un Dennis, che rischiare una esiziale Chernobyl sotto casa.
Ma può essere solo un mio pregiudizio verso il nucleare di oggi, chissà; magari poi un domani – peraltro ancora lontano – con le centrali a fusione nucleare, che di fatto azzerano il rischio radioattivo, smonteremo pale eoliche e pannelli fotovoltaici. Ma saremo già al tramonto del XXI secolo… sperando che quelle pale e quei pannelli nel frattempo abbiamo fatto il loro dovere per continuare ad ammirare Venezia, sciare sulle Alpi e non contendersi il proprio spazio di vita con i dannati delle terre aride.
C’è un’altra osservazione, con cui mi piace concludere. La ormai mitica Greta Thunberg – che molti ambientalisti di piazza vorrebbero santa subito – ha precisato che l’unico (ripeto: l’unico) criterio buono per salvarsi dal riscaldamento globale e dall’inquinamento è affidarsi alla scienza. Che non è infallibile, ma è la migliore forma di conoscenza di cui disponiamo e – soprattutto – guarda avanti, alla crescita – ancorché sostenibile – e non all’indietro, a quando Berta filava al lume di candela, si spostava in carrozzella e rischiava di morire per un raffreddore.
Francesco Mattioli
