Viterbo – A qualche decina di chilometri dalla Tuscia l’impianto che detiene la maggior quantità di rifiuti radioattivi in Italia. E’ l’Impianto Nucleco, alla Casaccia, Roma, con 7239 metri cubi di rifiuti. Il secondo per importanza è il Ccr Ispra (5707 metri cubi), il terzo l’impianto Itrec. Entrambi in provincia di Varese.
Un piccolo vademecum che si può consultare sfogliando le pagine del sito internet dell’Isin, l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione, ossia l’autorità di regolamentazione competente in materia di sicurezza nucleare e di radioprotezione.
Isin – Inventario dei rifiuti radioattivi in Italia
Qualche settimana fa la pubblicazione della Cnapi, la carta del governo che individua in Italia le aree idonee ad ospitare un deposito nazionale di rifiuti radioattivi e nucleari. Oltre 150 ettari di terreno da ricercare tra le 67 zone specificate dalla carta. Ventidue di queste si trovano nella Tuscia, Maremma e Monti Cimini, coinvolgendo 14 comuni che, assieme alla provincia, ai sindacati e al mondo delle associazioni in generale, comune di Viterbo incluso, si sono subito schierati contro. Insospettiti anche dal fatto che il grosso delle aree idonee in Italia, cioè circa il 32% dell’insieme, ricade proprio nel viterbese. In zone rurali importanti per il territorio dal punto di vista storico, turistico e ambientale, e di conseguenza economico.
Una scelta, quella di puntare la lente di ingrandimento soprattutto sui territori della Tuscia, che si intreccia, oltre che con i criteri scientifici indicati dalla Cnapi, anche con alcune variabili economiche legate alla necessità futura di smaltire in sicurezza le scorie ereditate dal passato e ridurre i costi per i rifiuti che arriveranno in futuro. Muovendo da un punto, già evidenziato dal fondatore di Legambiente ed ex presidente della commissione parlamentare rifiuti Massimo Scalia nel corso di un’intervista rilasciata a Tusciaweb. Gli impianti che già ospitano rifiuti nucleari sono i meno idonei di tutti ad ospitare il deposito nazionale che va invece cercato da un’altra parte. “Molti di questi siti – ha fatto notare Scalia – sono vecchi di decenni, e vanno pure messi in sicurezza. Altro che caricarli con altra roba! E sicuramente anche le comunità che gli stanno attorno non la prenderebbero bene. Già gli hanno costruito la centrale, adesso uno gli porta pure i rifiuti da altre parti. Penso anche che quelle comunità risponderebbero che loro ‘hanno già dato'”.
Quindi, se lì, a detta di un esperto, il deposito non si può fare, dove farlo? inoltre, adesso che, con l’individuazione delle aree, il punto di vista scientifico, salvo osservazioni, è stato espresso, i criteri di scelta saranno anche di natura politica, sociale, economica ed istituzionale. Il primo e l’ultimo, politico e istituzionale come forza negoziale e capacità di confronto e scontro. Il secondo e il terzo come variabili indipendenti che politica e istituzioni locali difficilmente potranno gestire e controllare con le proprie e sole forze.
Scorie nucleari
La Tuscia è un territorio che nel corso degli ultimi anni, accanto al tentativo, ancora all’inizio, di strutturare una propria immagine e un’identità tutta sua da spendere poi sul fronte turistico, ha vissuto contemporaneamente la crescita dei tassi di disoccupazione, in particolar modo giovanile, con percentuali, prima dell’emergenza Covid che potrebbe aver dato il colpo di grazia all’economia viterbese, ben al di sopra del dato nazionale. Con una popolazione che nel corso degli ultimi decenni ha progressivamente abbandonato le zone rurali per trasferirsi nei principali comuni o a ridosso delle vie di comunicazione con la Capitale, il principale mercato di lavoro a livello regionale. Trecentomila abitanti in tutta la provincia, concentrati per quasi la metà tra Viterbo, Montefiascone, Civita Castellana, Vetralla, Tarquinia e Acquapendente. Tutto il resto è sparpagliato per le aree rurali con scarso potere contrattuale, rispetto soprattutto a grandi multinazionali che nel frattempo stanno avanzando nelle campagne con le nocciole, il fotovoltaico, il Turbogas e l’eolico. Qualcuno, e fino a qualche mese fa, pensava pure al geotermico.
A parte le nocciole, si tratta di investimenti che per la maggior parte si concentrano in Maremma, cioè nella zona dove sono state individuate le aree idonee alla costruzione del deposito nazionale. Nel frattempo le campagne della Tuscia, investite a sud dall’espansione edilizia dell’area metropolitana romana, negli ultimi anni sembrano aver vissuto una vera e propria trasformazione dei rapporti sociali di produzione che hanno coinvolto gli stessi assetti proprietari. In particolare modo in Maremma e lungo tutto il litorale. A fronte infatti di una produzione agricola finalizzata soprattutto alle esigenze della grande distribuzione e quindi alla necessità di aumentare i quantitativi e intensificare i livelli di produttività, in pochi anni si è assistito ad una crescita della grande proprietà, laddove invece, come in Maremma, la riforma agraria aveva introdotto e rafforzato la piccola. E a innesti sempre più consistenti di manodopera bracciantile, in special modo straniera e talvolta senza diritti, come alcune inchieste delle forze dell’ordine hanno evidenziato, e vincolata alla terra del padrone da rapporti di stampo e natura medievali.
Accanto a queste dinamiche c’è poi da considerare l’impatto avuto sul territorio dal passaggio della trasversale, la superstrada che da Terni prima o poi dovrebbe arrivare a Civitavecchia. Un progetto che ha ormai più di 50 anni sulle spalle. Un tracciato che attraversa anch’esso la Maremma, Tuscania, Cinelli, Monte Romano, e dovrebbe continuare a farlo, continuando anche, passo dopo passo, a consumare suolo ed ettari di terreno. Una delle ipotesi è anche l’attraversamento di una parte della Valle del Mignone, patrimonio ambientale e naturalistico di grande valore, col rischio di impattare ulteriormente con l’immagine di un intero territorio.
Cnapi – Deposito nazionale rifiuti radioattivi e nucleari – Le aree idonee nella Tuscia
Per quanto riguarda invece i fattori economici in campo, le variabili da prendere in considerazione potrebbero essere due. La prima. L’urgenza di risolvere la questione delle scorie nucleari ereditate dal passato e ancora presenti in alcuni impianti. La seconda, gestire i rifiuti radioattivi che stanno aumentando e probabilmente continueranno a farlo in futuro. Soprattutto quelli provenienti dalla medicina nucleare, ossia quella branca della medicina che utilizza sostanze radioattive a scopo diagnostico, terapeutico e di ricerca biomedica. Lastre e Tac, tanto per fare un esempio. Variabili che potrebbero poi essere sottese da un’altra ancora. La necessità di far fronte a entrambe riducendo i costi.
Isin – Gli impianti con la maggior quantità di rifiuti radioattivi
In Italia gli impianti riconducibili al nucleare sono in tutto 24, gli operatori 13, i principali 4: Sogin Spa con 10 impianti gestiti, Deposito Avogadro Spa (1 impianto), Enea Nucleco (3), Centro comune di ricerca (Ispra-Va) della commissione europea. Va poi considerato il reattore di ricerca Rts-1 “Galileo Galilei” del Centro interforze studi per le applicazioni militari (Cisam) a Pisa gestito dall’amministrazione della Difesa.
La Sogin gestisce 10 impianti, costruiti tra la seconda metà degli anni ’60 e gli inizi degli ’80, al cui interno ci sono ancora circa 60 mila metri cubi di rifiuti. Oltre 50 mila sono a bassa intensità e quasi 9 mila a media.
Per quanto riguarda poi la presenza di rifiuti radioattivi in Italia, passando quindi alla seconda variabile, il grosso di questi è concentrato nella regione Lazio con 9284 metri cubi, seguita dalla Lombardia (6147) e dal Piemonte (5605). Mentre, lungo tutto lo stivale, sono 19 le installazioni industriali sottoposte a bonifica, 15 in Lombardia, 2 inVeneto e 2 in Toscana. Non solo, ma i rifiuti radioattivi crescono quasi dappertutto. Nel 2019 si è registrato un aumento in Emilia Romagna (+ 272 metri cubi), Basilicata (+ 147), Piemonte (+ 99) e Campagna (+ 3). Tranne nel Lazio ( – 27 metri cubi) e in Puglia (- 459).
Isin – Distribuzione provinciale delle strutture autorizzate all’impiego di radioisotopi e di macchine radiogene
“Si prevede, nei prossimi anni – sta scritto nel rapporto Isin 2020 sugli Indicatori dedicato alle “Attività nucleari e radioattività ambientale in Italia – una consistente crescita della quantità dei rifiuti radioattivi con l’avvio delle attività di smantellamento delle installazioni nucleari”.
“L’obiettivo del rapporto – riporta il sito internet dell’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare – è monitorare l’esposizione della popolazione italiana alle radiazioni derivanti dalle attività nucleari e dalla presenza di radioattività nell’ambiente, presentando una serie di indicatori che sintetizzano lo situazione attuale nel Paese”.
In un contesto simile, spiega il rapporto Isin sugli indicatori a dirlo, nel Lazio si concentra il 16% delle strutture, 95 a livello nazionale, autorizzate all’impiego di Radioisotopi e di macchine radiogene, vale a dire macchine che producono radiazioni ionizzanti, conosciute come raggi X. Un dato che assicura alla regione il secondo posto in Italia dopo la Lombardia (25%) e prima dell’Emilia Romagna (9%). Non solo, ma il grosso di queste strutture si trova tra le province di Roma e di Viterbo, soprattutto, per quanto riguarda la Tuscia, lungo il litorale.
Isin – Distribuzione provinciale della produzione di Fluoro 18
Il Lazio è poi tra le prime quattro regioni in Italia per produzione annuale di Fluoro 18, usato in medicina nucleare ad esempio per le Tac. Alla regione Lazio spetta il 9% della produzione nazionale, dopo la Lombardia (28%), la Puglia (12%) e l’Emilia Romagna (10%). Una produzione che nel Lazio si concentra anch’essa tra le provincie di Roma e Viterbo e in quest’ultimo caso sempre lungo il litorale.
Fra l’altro, a mo’ di parentesi, dal rapporto Isin viene fuori che il Lazio è la regione italiana con la più alta percentuale di abitazioni, il 6,3%, con una concentrazione media di radon indoor superiore ai 300 Bq per metro quadro. A seguire il Friuli Venezia Giulia (5,7%) e la Lombardia (4,1%). La media nazionale è 1,7%. Il radon è invece un gas molto pesante, pericoloso per la salute umana se inalato in quantità significative.
Isin – Indici di trasporto per provincia
Infine, ma non da ultimo, il dato sui trasporti delle materie radioattive, ossia di colli e tratte in funzione dell’impiego della materia radioattiva.
“La maggior parte dei colli trasportati – spiega il rapporto Isin 2020 – (circa il 95%) contiene materiale radioattivo per impieghi in campo medico, industriale e nel settore della ricerca”, mentre, a partire dal 2013, si registra un aumento dei colli trasportati “dovuto al maggiore impiego in medicina nucleare del Fluoro-18”.
I colli con materiali radioattivi trasportati in Italia nel 2018 sono stati in tutto 155.197, di questi, 130 mila, l’84%, provengono dalla medicina nucleare e dalla ricerca. La maggiore intensità sul piano dei trasporti si registra in Lombardia, quasi 87 mila colli (il 56% dell’intero quantitativo nazionale) di cui circa 77 mila (58%) prodotto della medicina nucleare. La seconda regione per trasporti di materie radioattive è il Lazio con 29896 colli (20%) di cui 25501 (19%) legati al mondo della medicina nucleare. Milano, Bergamo e Roma da sole mettono in circolazione più di 100 mila colli, di cui 87 mila e passa riguardanti la medicina generale. Lazio e Lombardia insieme caratterizzano invece il 75% del trasporto di materie radioattive in Italia e il 78% di quello derivante da medicina nucleare e ricerca.
Daniele Camilli
Documenti: Inventario dei rifiuti radioattivi in Italia – Attività nucleari e radioattività ambientale – I rifiuti radioattivi in Italia