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![]() Francesco Mattioli |
Viterbo – Umberto Cinalli avrebbe qualche ragione nel lamentare l’atteggiamento istintivo e poco lucido di taluni amministratori locali della Tuscia in preda alla sindrome Ninby, se si trattasse di pale eoliche o impianti fotovoltaici che turbano la sensibilità storico-paesaggistica ma restituiscono energia pulita, fondamentale per la salvaguardia dell’ambiente.
Tuttavia, voglio ripetermi, nel caso di rifiuti pericolosi si discute di una potenziale minaccia alla salute dei cittadini. La questione è quindi ben diversa. Le precauzioni nella scelta dei siti di stoccaggio delle scorie radioattive certifica che il rischio c’è, seppur affidabilmente ridotto dalle attuali tecnologie di conservazione.
Nell’affrontare questi problemi si applicano dei parametri valutativi considerati “oggettivi”, perché discendenti da un approccio scientifico. Ma questa oggettività è tutta da vedere. La scienza non si ferma all’Ispra, o meglio non si ferma né alla fisica nucleare, né alla medicina, né ad altre scienze fisico-naturali.
Altrettanto vincolanti sono quei parametri che hanno a che vedere con gli atteggiamenti umani e con le interazioni sociali, economiche e culturali. Quando si stabiliscono dei parametri per la collocazione di un sito potenzialmente pericoloso, quindi, non si possono – anzi, mi sento di dire non si devono – prendere in considerazione soltanto indicatori di carattere fisico, sismico, idrogeologico, infrastrutturale, demografico ma anche di natura sociale.
Esiste una ampia letteratura scientifica che ha a che vedere con la percezione e la valutazione del rischio; questi studi dimostrano che la gestione del rischio deve tenere conto di determinanti fattori umani; non solo per il rispetto dovuto alle persone, alle loro attività e al proprio ambiente, ma anche per prevenire la possibilità che si manifestino forme estreme di contestazione e di conflitto sociale. Intervengono quindi nella determinazione di certe progettualità ambientali taluni fattori umani imprescrittibili che intersecano i calcoli puramente “tecnici” fino ad influenzarne il peso specifico.
Né si pensi di liquidare la questione ritenendo che la dimensione umana sia mera questione ideologica che dovrebbe scomparire di fronte al vincolo dei dati fisici. E’ uno degli errori marchiani che commette chi capisce ben poco del significato e dell’uso della scienza.
Peraltro uno dei più seguiti “vangeli” dell’ambientalismo, la Dichiarazione di Rio del 1992, al Principio 1 sostiene che “Gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una vita sana e produttiva in armonia con la natura”. Invito a riflettere sul passo che pone gli esseri umani al centro delle preoccupazioni dello sviluppo, scienza compresa.
Al Principio 3, la stessa Dichiarazione proclama che “Il diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo da soddisfare equamente le esigenze relative all’ambiente ed allo sviluppo delle generazioni presenti e future”; anche qui, invito a considerare il passo in cui si dice che occorre soddisfare equamente le esigenze dell’ambiente e quelle dello sviluppo.
La Dichiarazione di Rio in altre parole introduce elementi di natura sociale nella valutazione dell’impatto dei programmi di gestione ambientale, anche quando questi vogliano adottare criteri rigidi di natura “tecnica”.
E questo è esattamente il problema della individuazione di un sito che secondo la Cnapi dovrà accogliere i rifiuti radioattivi nazionali: non basta che tale sito abbia la fortuna o la sfortuna di essere poco popolato, poco soggetto a minacce ambientali, lontano da infrastrutture; se dovessimo seguire fino in fondo questi criteri dovremmo continuare a scaricare i nostri rifiuti e i nostri problemi sui paesi africani, poco popolati, poco soggetti a minacce ambientali, senza infrastrutture, e andremmo a tradire proprio i fondamenti della Dichiarazione di Rio facendoci nemici di un ambientalismo responsabile.
D’altronde se sottovalutiamo le indicazioni della scienza sociale e qualcuno la confonde con l’ideologia, il rischio è quello di farsi contestatori in Val di Susa e governativi in Valdilago. Di conseguenza, mi sembra che nella discussione sull’individuazione del sito del Deposito Nazionale dei Rifiuti Radioattivi la gestione del rischio debba seguire anche altri criteri di pari valenza scientifica, ma ignorati dalla Guida Tecnica n. 29 dell’Ispra e sottovalutati dalle autorità politiche, e che il dibattito con i vari soggetti pubblici interessati e i vari stakeholders in diritto debba condurre a soluzioni eque, che non continuino a penalizzare, per esempio, la Tuscia e le sue risorse, spesso marginalizzate e inespresse.
L’assegnazione di un sito ad un territorio avverrà attraverso un confronto con la popolazione? Belle parole, se lo Stato e l’Ispra non saranno disposti a negoziare e a venire a patti e manterranno il loro punto in nome di una scienza (naturale) oggettiva.
Non c’è dubbio che la determinazione di un Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi, anche fosse dislocato in varie sedi territoriali, sia necessario. Ma continuo a ritenere che, fin dove è possibile, chi crea rifiuti li getti nel proprio secchio e non in quello degli altri. L’Unione Europea ci intima di farlo, non vedo perché il processo dovrebbe interrompersi ai confini del Viterbese.
Oltre tutto, mi si consenta il paradosso: non puoi dire ad una provincia “Anche se tu produci il 5% dei rifiuti devi accollarti il 100% del loro stoccaggio”; a quel punto quella provincia potrebbe rispondere che in tal caso essa matura anche il diritto ad ottenere gran parte degli investimenti che lo Stato avvia per lo sviluppo territoriale, invece del 5% che le spetterebbe.
Paradosso certo; ma tenendo conto dell’art. 3 della nostra Costituzione che definisce l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, mi sembra che non si possa chiedere ad alcune comunità di “sacrificarsi” per il bene collettivo. E se proprio questo sacrificio è inevitabile, anche dopo aver sottoposto la scelta dei siti pericolosi a tutte le variabili, fisiche e sociali, che con pari dignità intervengono nel processo decisionale, allora esso va ampiamente risarcito. Ampiamente, non con qualche benevola concessione.
Chiudo con una considerazione personale: voglio rassicurare Cinalli che il sottoscritto non può certo essere annoverato tra i “personaggi e personalità spesso lontani dai temi inerenti lo sviluppo sostenibile del territorio o della salvaguardia ambientale che ora si rivelano paladini della natura e della salute pubblica”.
Ovviamente sono certo che non mi confonda con costoro. Ma a scanso di equivoci, gli confermo che le mie valutazioni del problema provengono da esperienze e competenze dirette; spero voglia darmene testimonianza e tener conto del fatto che sul problema non si può partire così allegramente e fiduciosamente da “alcune considerazioni oggettive”.
Il famoso Rapporto Meadows, tanto per parlare di una tradizione ambientalista ormai quasi cinquantennale, contesta proprio i punti di vista “oggettivi” da cui lo sfruttamento delle risorse del pianeta partiva per mettere a rischio la sua sopravvivenza…
Francesco Mattioli
– Umberto Cinalli: “Scorie, esiste una enorme ipocrisia e una colpevole superficialità in questo dibattito…”