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Media - Intervista al giornalista Luciano Nigro che seguì da vicino le cronache di quegli anni: "In parte comprensibile la reazione della comunità alla docu-serie di Netflix"

“A San Patrignano c’era violenza, ma anche tanto amore. L’errore di Muccioli? Non riconoscere di averne commessi”

di Barbara Bianchi
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Coriano – È il 1978 quando Vincenzo Muccioli accoglie a San Patrignano il primo ospite. Di lì a breve quel centro sulle colline di Coriano, nel Riminese, è destinato a diventare la più grande comunità di recupero per tossicodipendenti che l’Italia abbia mai visto. Una realtà che negli anni ha fatto discutere, spaccando il paese e tornando imponente alla ribalta con la serie Netflix “Sanpa”. Perché se da una parte c’è il San Patrignano delle lunghe tavolinate, dei campi coltivati e degli animali allevati allo stato brado, il San Patrignano dei ragazzi salvati dalla strada, dall’altra c’è il San Patrignano delle catene, dell’isolamento e delle violenze.


Netflix - Sanpa: luci e tenebre di San Patrignano

Netflix – Sanpa: luci e tenebre di San Patrignano


E al centro una delle figure più controverse della nostra storia contemporanea: Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità. Fisico imponente, spalle larghe, occhi neri e penetranti. Per molti un santo, che raccoglie e accoglie come figli migliaia di giovani. Per altri un santone, amante – come da lui stesso dichiarato – della parapsicologia. A tratti carceriere. Che non risparmia schiaffi e catene pur di portare a termine la sua missione: strappare vite umane dalla tossicodipendenza. In cambio, Muccioli chiede l’accettazione di regole ferree, che non ammettono confronto o dissensi. Chiede fede, lavoro, disciplina severa, tale che dovrà anche affrontare un procedimento giudiziario per sequestro e maltrattamenti per il quale sarà assolto, nel 1987, dalla Corte d’Appello e tre anni dopo dalla Cassazione.

Luciano Nigro

Luciano Nigro


Ma chi era davvero Vincenzo Muccioli?
“Vincenzo Muccioli non era solo quello degli schiaffoni, era uno che c’era davvero per i ragazzi – spiega Luciano Nigro, giornalista di Repubblica, che dall’età di 22 anni ha iniziato a seguire la controversa vicenda di San Patrignano -. Tanto che, quando è finito in galera, hanno portato avanti il suo progetto. Quando era prevedibile che tutto si sfasciasse, hanno tenuto duro. Non sono scappati. E questo è accaduto perché a tenere insieme San Patrignano, il suo fondatore e i suoi ospiti era un bene profondo, un legame forte”.

Subito dopo la messa in onda della docu-serie di Netflix, che racconta i lati più oscuri del centro, la comunità ha preso le distanze dal prodotto, temendo che potesse avere effetti negativi sugli ospiti della struttura e definendola “sommaria e parziale”. Cosa pensa di questa reazione?
“La reazione della comunità è in parte comprensibile perché la serie è, in realtà, la storia di Vincenzo Muccioli. Si focalizza sul suo personaggio e sulla costruzione di San Patrignano, che ha rappresentato un evento epocale per l’Italia, accompagnato, come tutti sappiamo, da una serie di momenti molto difficili e di tragedie. La comunità rivendica il fatto che oggi la situazione è totalmente diversa, per questo in parte la loro presa di posizione è comprensibile. Quello che è oggi San Patrignano nella serie non c’è…”.

La serie, che racconta anche di metodi punitivi, di pestaggi e di ragazzi rinchiusi nella pelletteria e nella piccionaia per evitare che scappassero, può davvero, secondo lei, avere effetti negativi su quello che è oggi San Patrignano?
“L’idea che parlare di quello che non ha funzionato in passato sia destabilizzante per la comunità forse è vero, ma mi ricorda un po’ i presidi che si arrabbiano quando si parla di ciò che non va nella scuola… Io non credo che questo fosse l’intento di chi ha fatto la serie. L’obiettivo era raccontare una storia che è stata importantissima per il paese, dato che ha determinato le politiche antidroga degli anni ’80 e ’90. La droga ha rappresentato un dramma enorme per migliaia e migliaia di famiglie. Da questo punto di vista il film riesce a rendere quello che è accaduto in quegli anni. E nel farlo racconta la storia di quell’uomo straordinario che è stato Muccioli”.

Muccioli santo, Muccioli santone, a tratti carceriere. Ma la verità dove sta?
“Non sopporto quelli che raccontano che andasse tutto male, ma neanche quelli che raccontano che andasse tutto bene. Muccioli è uno che si è trovato quasi per caso ad affrontare il problema della droga: si ritrovò a fare nella sua casa di campagna questa comunità in cui sul finire degli anni ’70 iniziano ad arrivare ragazzi che avevano problemi con la droga. È lì che lui stesso scopre questo mondo e inizia ad affrontarlo a modo suo. Da autodidatta. Con un metodo di cui lui stesso ha riconosciuto la rigidità. La scimmia, diceva riferendosi alla droga, non si combatte dicendoti poverino o lasciandoti andare. Perché altrimenti i ragazzi tornano in piazza, si drogano di nuovo e rischiano di morire. Così come per molti è stato. “Io, ripeteva anche durante gli incontri con i giovani ospiti, ti devo tenere e contenere quando serve. Anche con delle maniere forti, se necessario”. C’è il figlio di Vincenzo che dice che il padre dava dei ceffoni enormi…”.

E questo poteva creare problemi…
“Questa cosa certamente creava molti problemi e piaceva poco. Perché piace poco l’idea di uno che tira dei ceffoni e rinchiude la gente. Però con molti ragazzi funzionava. Fino a che ad un certo punto hanno scoperto che nei metodi spicci aveva un po’ esagerato”.

Qual è stato l’errore di Muccioli secondo lei?
“Secondo me l’errore di Muccioli non è stato aver commesso degli errori, l’errore di Muccioli è stato non riconoscerlo. E non averlo fatto ha portato ad altre vicende drammatiche e orrende, come l’omicidio di Roberto Maranzano. Detto ciò, voglio che si sappia che Muccioli non era solo quello dei ceffoni, era uno che c’era davvero per i ragazzi. Un affetto quasi materno, quello che lo legava a loro. Quando lo hanno messo in galera, io andavo tutti i giorni a San Patrignano. Andavo a parlare con i ragazzi, a discutere con loro. Nonostante l’assenza del capo, hanno tenuto. E questo non era affatto scontato: decine di tossici lasciati soli avrebbero potuto andarsene e mandare all’aria ogni cosa. Invece così non è stato. Perché? Perché c’era un legame fortissimo che li univa a Muccioli. Muccioli era sì quello delle maniere forti e contestabili, ma era anche materno nei confronti di questi ragazzi. In fondo gli voleva bene e loro volevano bene a lui. C’era la violenza, ma c’era anche amore. E se non lo si capisce, non si capirà nulla della realtà di san Patrignano dell’epoca”.

Quando è andato a San Patrignano l’ultima volta?
“L’ultima volta che sono tornato a San Patrignano è stato per il capodanno del 1994, pochi mesi prima che Muccioli morisse. Passai il capodanno con i ragazzi, con Vincenzo. Brindammo al nuovo anno con Letizia e Gianmarco Moratti. Poi non sono più stato. Se non per una volta con la mia famiglia, quando andammo a mangiare nel ristorante gestito dalla comunità e aperto al pubblico. C’era un ragazzo che ci serviva: di lì a breve sarebbe uscito per la prima volta da san Patrignano dopo quattro anni. Era molto contento e speranzoso. Stava per tornare a casa, in Sicilia”.

Barbara Bianchi 


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11 gennaio, 2021

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