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Ricordi - Un giornalismo fatto di cuore

Il professor Vismara…

di Vincenzo Ceniti
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Sandro Vismara

Sandro Vismara a destra


Viterbo – “Presto e possibilmente bene”: parola d’ordine di Sandro Vismara (Viterbo 1919-1987), il “professore” per antonomasia, decano di un  giornalismo d’antan, fatto di cuore, veline e carta stampata, di cui è stato campione ed eroe. Ha dedicato una vita al Messaggero, prima come corrispondente, poi come responsabile di redazione (curava anche i rapporti con la Rai regionale e l’Ansa). Ma subito aggiungeva,  parafrasando una massima di  Mario Missiroli, “prima di licenziare un articolo togli dieci righe”.

L’ho frequentato dalla fine del Quaranta per alcune supplenze d’italiano trascorse in giornate di  gran calura nella sua abitazione a Viterbo che rinfrescava con una accorta e sperimentata correntina tra finestre semichiuse. L’ho riagganciato da giovane impiegato dell’Ente Provinciale per il Turismo nel 1965, di ritorno dal mio noviziato a Firenze, quando faceva parte del comitato esecutivo dell’ente viterbese come esperto turistico. Ha ricoperto quell’incarico fino all’anno della sua morte nel 1987. In pratica sono stato  in contatto con lui per circa un quarto di secolo.

Docente di lettere all’istituto magistrale Santa Rosa di Viterbo (anche vice preside), ha educato e orientato alla vita centinaia di studenti. In classe faceva leggere i giornali ai ragazzi, li commentava con loro, organizzava processi storici con tanto di accusa e di difesa e dispensava consigli di educazione civica. Grazie ad un premio che ne perpetua la memoria, gli allievi del “Santa Rosa” si cimentano ogni anno in un concorso letterario sostenuto dai nipoti e dal figlio Massimiliano. “Di papà cosa ricordi?” e lui “L’ odore di carta misto a caffè del suo studio e il ticchettio della sua macchina da scrivere. Le due lampade accese sopra la sua scrivania piena di fogli con sopra scritta la sua indecifrabile grafia. E poi la sua voce calma che rispondeva a tutti con umiltà. Quando è morto ero giovanissimo e non ho potuto confrontarmi con lui da adulto. Ma posso dire che quando ero con lui erano due le sensazioni dominanti: la calma che mi  trasmetteva e il senso del dovere. Che lui aveva ed io no”.

Aggiungo la venerazione  per mamma Lina che percepivo nelle rare occasioni che avevo accesso alla parte più intima della casa di via Monte Asolone,  la cucina, dove la sera il “professore” si riuniva insieme ai suoi in una comoda poltrona davanti al telegiornale in bianco e nero. Ai piedi le morbide pantofole di flanella con lampo centrale. Quando camminava sembrava non toccare terra (la confidenza è della nipote Cinzia). Se c’era anche il fratello Enrico, dirigente del ministero del Turismo e dello Spettacolo che abitava a Roma, era una festa. La domenica a pranzo andavano tutti in trattoria secondo una sana e consolidata abitudine. Le più gettonate a Viterbo erano Il Bersagliere, Tre Re e Spacca. Frequenti le incursioni in quelle dei dintorni.

Una delle due sorelle, Adriana, le faceva da assistente-postina, nel senso che raccattava i giornali di buon mattino  – compresa una montagna di corrispondenza nella mega cassetta delle lettere  – e recapitava le veline degli articoli scritti per il Messaggero ai vari responsabili delle istituzioni locali. Ma Adriana era anche la sua autista tuttofare al volante di una Simca 1100 grigia non proprio di prima mano.


Sandro Vismara

Sandro Vismara al centro


L’amore per Viterbo lo portava a prendere dure posizioni quando vedeva abitanti e negozianti poco accoglienti nei confronti dei forestieri. Ai ristoratori sollecitava l’esposizione dei menu coi prezzi sulla porta del locale. Al Comune raccomandava più decoro e pulizia nelle strade. Se giungeva a Viterbo un ospite illustre (penso a  Hailé Selassiè, il principe Carlo d’Inghilterra,  Aldo Moro e Giovanni Paolo II), era in prima linea e utilizzava le pagine locali e nazionali come veicolo promozionale per la Tuscia Viterbese. E’ stato tra i primi a intervistare alla fine degli anni Cinquanta il re archeologo Gustavo VI Adolfo di Svezia sotto il sole a picco nelle campagne di San Giovenale.  Questo attaccamento alle radici lo porterà nel 1973 ad immaginare insieme al presidente dell’Ept di allora Italo Arieti e al sottoscritto la rivista “Tuscia”, a quel tempo unico e prezioso veicolo di propaganda turistica distribuita in tutta Italia, e a riunire alcuni anni dopo i suoi scritti divulgativi in un libro dal titolo “Cara Viterbo – Aspetti, avvenimenti e personaggi della Tuscia dal 1945 al 1985” (Union printing due edizioni) che oggi è un documento di eccezionale valore per la storia della nostra terra.

In quegli anni senza internet i quotidiani cartacei erano molto diffusi. A Viterbo regnavano in due con le pagine locali: Il Tempo e Il Messaggero. Nel primo lavoravano, tra gli altri, Giorgio Martellotti, Giorgio Falcioni, Michele Bonatesta e Beppe Mascolo; nel secondo oltre a Sandro Vismara si leggevano Luciano Costantini,  Mario Pandolfo, Gianfranco Fapperdue, Tina Biaggi, Giorgio Barili ed altri  La competizione a chi dava per primo la notizia e con più dovizia di particolari c’era e si toccava. E c’era anche con le prime emittenti televisive locali, a partire dal 1985,  quando le due testate di carta stentavano a tenere il passo con la velocità delle notizie in video.

Ma  non solo giornalista. Il suo modo di fare, facilitato anche da una menomazione fisica che paradossalmente lo rendeva  meno vulnerabile, la voce bassa e contenuta (mai un grido), la sua innata disponibilità al dialogo senza preclusioni di parte, lo portavano in quei periodi segnati da steccati ideologici ad assumere il ruolo di amico e confidente tra le varie fazioni politiche. Al telefono anziché rispondere “pronto” diceva “Vismara”, come a legittimare il suo  stile di vita, asciutto e sintetico. Nei consigli comunale e provinciale era amico di tutti e tutti gli si rivolgevano a lui con rispetto. Tanti i protagonisti di quella stagione politica legata a qualche nostalgia. A mente e alla rinfusa: Attilio Jozzelli, Oreste Massolo, Duilio Mainella, Nando Gigli, Nicola Serra, Rosato Rosati, Aldo Laterza, Silvio Ascenzi, Sergio Pollastrelli, Pippi d’Angelo, Ugo Lentini, Domenico Mancinelli, Leto Morvidi, Licinio Marcoaldi, Ugo Sposetti, Giuseppe Fioroni, Gilberto Pietrella, Giuseppe Bruni, Marcello Polacchi e molti altri ancora. Con ognuno di loro aveva un argomento in comune, magari il calcio (tifava per la Roma), con vedute condivise e no. La mattina successiva alla sedute consiliari, al telefono riusciva ad ammorbidire  polemiche ed equivoci, parlando ora con l’uno, ora con l’altro e indirizzare la discussione su binari costruttivi. Esempio su tutti la questione dell’Università per cui si è sempre battuto con forza e convinzione. Quando si organizzava al Teatro Unione il “Ballo della Stampa” prendeva parte con impegno alle fasi preparatorie.  Mai visto però in platea.

Negli anni di questi amarcord vibrava a Viterbo  un cenacolo di intellettuali di cui era un solido riferimento: Bonaventura Teccchi, Attilio Carosi, Raimondo Pesaresi, Corrado Buzzi, Bruno Barbini,  Gamaliele Bonavia, Bruno Di Porto, Tommaso Scarascia Mugnoza e molti altri. Quelle vibrazioni non le ho più sentite. “Il professore ci ha lasciato”. La telefonata di quel 2 aprile 1987 che mi fece la sorella Maria Pia non mi colse di sorpresa, ma mi fece egualmente male poiché di colpo mi sentii privato di qualcosa.

“Abbiamo perduto  un campione di  virtù civiche” dirà  il vescovo Luigi Boccadoro nell’omelia funebre a Santa Maria della Verità affollata di parenti, autorità, amici e conoscenti. Anche un eroe se pensiamo al suo fisico fragile e indifeso con cui però ha lottato e vinto.

Vincenzo Ceniti


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12 aprile, 2021

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