Vasanello – Riceviamo e pubblichiamo il ricordo di Antonio Tabacchi, il papà di Silvia, la 28enne uccisa dal suo ex fidanzato, in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne – Istituzioni pubbliche e cultura contro la violenza sulle donne.
Non parlerò solo di violenza sulle donne. Parlerò anche di Silvia, di istituzioni pubbliche -per il ruolo importantissimo che svolgono nel contrasto alla violenza sulle donne-, del concorso letterario “a Silvia”, di realtà e percezione. Nella realtà tutte le cose sono tra loro collegate; per questo è difficile districarle e separarle. Mi scuso anticipatamente per gli sconfinamenti dal tema principale.
La vita di Silvia è stata interrotta bruscamente, le è stato tolto il futuro, le è stata impedita ogni possibilità di essere felice; e questo ha provocato un dolore immenso. Ma c’è qualcosa che consente a me e a mia moglie di sopportare questo dolore: che Silvia ha amato i suoi familiari e i suoi amici senza limiti; ci ha travolto col suo amore gioioso e noi quell’amore continuiamo a sentirlo ogni momento, non muore mai. E’ come se avesse lasciato la sua traccia in ogni cosa. E quella traccia io e mia moglie la sentiamo continuamente, la sentiamo nei ricordi dei momenti passati con Silvia, nella casa, negli oggetti, dappertutto. E’ qualcosa che tutti i genitori che hanno avuto la disgrazia di perdere un figlio sentono.
E allora è vero che l’amore travalica il tempo, ti apre le porte dell’infinito, come anche la panchina installata a Vasanello contro la violenza sulle donne (ideata dall’artista Stefano di Maulo e realizzata da Emanuele Pomi) ci suggerisce con la sua simbologia, con i simboli dell’infinito e dell’amore universale che campeggiano nella spalliera della panchina.
Ma è anche vero che quando ti piomba addosso la tragedia, non ce la fai a superare il trauma, pensi sempre a quell’istante, a quei momenti terribili.
Ti vergogni di far parte della specie umana; io avrei voluto essere un animale che vive in un habitat non frequentato dagli esseri umani, un giaguaro, un puma, una forma di vita che sta in fondo al mare, dove il mare è più profondo. Ho provato qualcosa di simile quando ho sentito del padre che ha ucciso il figlio a Vetralla, la settimana scorsa. La vergogna di essere un uomo.
Io non riuscivo a pensare ad altro che a quella sera del 17 marzo 2017, almeno fino a quando, dopo due interventi al cuore, ho cominciato a pensare che non era quello che avrebbe voluto Silvia per me e per sua madre.
Quando stai male cerchi il colpevole. Io non riuscivo, e non riesco ancora a spiegarmi, come può un ragazzo, anche intelligente, arrivare a pensare di compiere un gesto così terribile ed estremo. Nessuno di noi ha minimamente sospettato una cosa del genere e questo è stato un nostro errore. Ma pensavo anche che dovesse esistere nella nostra mente un argine che sbarra la strada a certe azioni, una barriera culturale e morale. Se non c’era, doveva essere perché non avevamo fatto abbastanza su questo piano e non avevano fatto abbastanza quelli che hanno più potere sui nostri destini, perché governano i mezzi di comunicazione coi quali si plasma la cultura delle persone. Questo pensavo dopo la tragedia e non mi davo pace.
Noi viviamo tempi esasperati; c’è anche chi fomenta l’esasperazione, chi approfitta, manipola o ci specula sopra, ma penso anche che c’è una massa di persone che sta male; e se stai male può anche incrinarsi la tua fiducia nelle istituzioni pubbliche, perché se stai male pensi che dipenderà anche da chi ha potere, eppure non ha fatto nulla per modificare una realtà che non riesci ad accettare.
E invece le istituzioni pubbliche sono l’unico argine tra noi e il caos. Se c’è una cosa che non possiamo permetterci è la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni. Sono da rafforzare, migliorare, riformare sicuramente, anche per non dare l’alibi a nessuno di voler demolire tutto, ma sono l’unico argine contro il caos.
Noi siamo umani e siamo sempre stati imperfetti e il nostro compito è prendere atto della realtà, capirla, cercare di modificarla; non è possibile scappare.
Ho preso da poco l’account Facebook per vedere cosa gira in quel social; vedo che le persone lo sanno usare meglio di me che pure uso i computer da 35 anni circa. Quindi penso che non dovrebbe essere difficile per nessuno usare internet per capire meglio la realtà. Una debolezza del cuore umano dal tempo dei tempi (già Giulio Cesare commentava nel De Bello Gallico: “Fere libenter homines id quod volunt credunt”, cioè “Spesso gli uomini credono volentieri a ciò che vogliono credere”) è quella di andare sempre in cerca di conferma di quello che già pensiamo o ci piace pensare. Ecco, non dobbiamo usare internet, mi ci metto anch’io, per chiuderci in una bolla che ci racconti solo quello che vogliamo sentire.
Internet può essere una grande opportunità per reperire dati, dati oggettivi, se presi da fonti affidabili (basti pensare alla piattaforma Worldometer che per esempio aggiorna in tempo reale i dati mondiali sull’epidemia Covid), per farsi un’idea della realtà sulla base di essi e capire come stanno le cose, sia che si tratti di salute, di sicurezza delle persone o di economia, sapendo che se perfino la fisica è governata da leggi probabilistiche tanto più nella vita umana tutto è una questione di probabilità.
Il problema dei femminicidi non è, per esempio, un problema di severità delle pene; un terzo degli assassini si suicida; poco cambierebbe le cose una pena più severa, non è quello il problema. II problema dei femminicidi non è neppure un problema italiano; è un problema culturale mondiale; in Europa siamo tra i paesi con il più basso indice di femminicidi per 100.000 abitanti (bisogna saperlo, anche se questo non cambia il problema, che resterà tale fino a quando anche una sola donna continuerà ad essere uccisa), come siamo tra i paesi con il più basso indice di omicidi e di furti con atti di violenza. Questo dicono i dati. Siamo anche il paese che, nella misura dell’insicurezza percepita, ha il più alto scarto tra percezione e realtà. Siamo cioè tra i paesi europei più sicuri per quanto riguarda i crimini più gravi (nei furti d’auto, invece, siamo tra i leader in Europa) ma ci percepiamo come i più insicuri. Forse i mezzi di informazione hanno qualche responsabilità in questo tipo di diffusa distorsione della percezione. Per inciso, il nostro sistema di informazione non sta granché bene.
Non perché i giornalisti vengano messi in galera, ma per carenze strutturali, siamo dietro a tutti i paesi dell’Europa occidentale nella classifica della libertà di stampa, dietro anche a paesi extraeuropei, come Ghana, Namibia e Burkina Faso.
Noi siamo umani e siamo sempre stati imperfetti e il nostro compito è prendere atto della realtà, non è possibile chiudersi in una bolla che ci conforti e ci rassicuri, ci confermi tutto quello che già pensiamo, perché così ci sentiamo meglio: evadere dalla realtà è sconfitta sicura, per tutti.
In un sistema democratico, quale abbiamo la fortuna di essere, le istituzioni pubbliche sono l’argine al caos e anche –con l’ausilio delle associazioni di volontariato e delle organizzazioni senza fini di lucro- il principale strumento di contrasto alla violenza sulle donne. Tutti pensiamo che le istituzioni pubbliche italiane (intendo con questo tutto l’apparato dello Stato che garantisce la nostra sicurezza, assistenza e protezione, la giustizia, la sanità, l’istruzione e la ricerca scientifica) costino molto di più che nel resto d’Europa. Anche qui, la percezione non coincide con la realtà. Rispetto ai paesi a nord dell’Italia, dall’Austria, Svizzera e Francia, fino ai paesi scandinavi, la spesa pubblica complessiva per abitante in Italia è la più bassa di tutti, nonostante rispetto al PIL la quota impegnata di spesa pubblica sia tra le più alte. Questo perché il nostro PIL per abitante è inferiore a tutti i paesi del nord Europa occidentale. Quindi noi facciamo meno spesa pubblica per abitante degli altri paesi, ma al tempo stesso non possiamo spendere di più in rapporto a quello che è il nostro PIL. Questo significa che per avere più risorse pubbliche e migliori servizi pubblici dobbiamo fare due cose: far crescere di più il PIL (siamo condannati alla crescita e dobbiamo farlo in modo sostenibile, ecologicamente e socialmente sostenibile) e aumentare l’efficienza della spesa pubblica, ingegnandoci organizzativamente a fare di più con meno risorse e riequilibrando la spesa pubblica secondo ciò che è prioritario per la collettività. E’ una grande sfida e una grande opportunità. L’efficienza e l’integrità della pubblica amministrazione devono essere un’ossessione per i leader e i manager che ci lavorano.
In tema di violenza contro le donne, le istituzioni pubbliche possono fare ancora molto. Come nel caso della sicurezza sul lavoro, dove gli indici di mortalità però sono peggiori per l’Italia in Europa, non possiamo accontentarci di un miglioramento degli indici. Nessuna azienda potrà mai accontentarsi di un miglioramento degli indici di mortalità sul lavoro perché l’unico dato di mortalità accettabile per la nostra cultura giuridica e la nostra morale è 0. Così nessuno potrà mai accontentarsi di un numero di femminicidi diverso da 0.
La battaglia finale contro la violenza sulle donne è perciò culturale. Serve una rivoluzione culturale. Nessuno, se non pochissimi casi di follia che ci fanno inorridire, si sogna di uccidere il padre e la madre, è un tabù; esiste uno sbarramento mentale che blocca anche solo il pensiero. Così deve essere per la violenza sulle donne.
Ed è per questo che partecipo sempre con piacere al Concorso letterario per ragazzi intitolato “a Silvia”, cui è dedicata anche la panchina installata a Vasanello. Esso esiste grazie all’impegno e alla capacità organizzativa di Maria Elena Piferi e dell’Associazione Donna Olimpia, al patrocinio di enti, aziende e associazioni, provinciali, regionali e nazionali, tra cui, da sempre, il comune di Vasanello, e grazie all’impegno di presidi e professori che stimolano i ragazzi a partecipare.
L’obiettivo è investire sui ragazzi, per cambiare le cose, per un futuro diverso. Ci tengo a sottolineare che un concorso artistico per i ragazzi delle scuole non ha niente di celebrativo.
Se di primo acchitto, prima di partecipare al primo incontro cui mi invitarono nel 2018, ho pensato: ma che c’entra un concorso letterario con la violenza sulle donne? se qualcuno può ancora pensarlo, devo dire che io mi sono ricreduto subito partecipando all’evento. Del resto io lo sapevo già che c’entrano, eccome, l’arte, la poesia. Lo sapevo fin da quando ho studiato Kant al Liceo. Lo sapevo perché già da ragazzo mi ossessionava la voglia di capire quale fosse la caratteristica peculiare, specifica, dell’arte, della poesia, del bello; capire perché una poesia produce in noi un effetto diverso dalla lettura di un libro di storia o di scienze. La spiegazione è semplice: noi usiamo le nostre facoltà separatamente a seconda dell’esperienza che stiamo vivendo, l’intelletto per risolvere un problema logico, la ragione per capire quello che è giusto o è sbagliato, l’immaginazione per fantasticare, il sentimento quando proviamo emozioni.
L’arte, la poesia non sono fatte per spiegarci razionalmente come stanno le cose, sono fatte per mettere in libero gioco tra loro, contemporaneamente, tutte le nostre facoltà, intelletto, ragione, immaginazione e sentimento, per farle interagire durante l’esperienza artistica, che in questo modo vivifica le nostre capacità conoscitive. Non è un caso che perfino le aziende stiano scoprendo la possibilità di connubio tra arte e lavoro, in un momento storico in cui il tipo di coinvolgimento richiesto a chi lavora è sempre più totale e la mission delle aziende non è più il solo profitto economico, ma un profitto che sia sostenibile, economicamente, socialmente e ambientalmente. Per questo non basta più un lavoratore che si limita a eseguire il suo compito intellettuale; in un’impresa socialmente responsabile serve un lavoratore che si metta in gioco totalmente, usando anche il sentimento, la ragione e l’immaginazione, la creatività.
I ragazzi cimentandosi nel lavoro artistico, vivono un’esperienza più profonda, che li coinvolge integralmente e sedimenta in loro la consapevolezza che acquisiscono. Noi infatti crediamo che essi, mettendo in gioco tutte le loro facoltà e non solo l’intelletto, e aiutati dai professori, diventino così più consapevoli della propria interiorità e dell’interiorità dell’altro, del valore assoluto della dignità di ogni essere umano, che è il presupposto della cultura del rispetto contro ogni forma di violenza. I risultati visti nelle precedenti edizioni sono stati molto incoraggianti. L’anno scorso, per la pandemia, è saltata la premiazione del concorso. Speriamo che quest’anno la situazione consenta di celebrare la terza edizione.
E’ impossibile citare i nomi delle tante persone, enti, aziende e associazioni che hanno dato il loro sostegno al progetto.
Ringrazio tutti per quello che fanno. Grazie a tutti voi per l’attenzione.
Antonio Tabacchi
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