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L'opinione del sociologo - Il problema della tossicodipendenza e del degrado sociale conseguente a quello urbano non è viterbese e non è di oggi

Droga in pubblico, ci sono tre tipi di prevenzione…

di Francesco Mattioli
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Viterbo –  Credo che il dibattito sulla “droga in pubblico” che si sta sviluppando sulle pagine di Tusciaweb meriti qualche ulteriore riflessione. Non che gli interventi abbiano mal posto la questione, ma probabilmente sono stati influenzati da posizioni in parte ideologiche che rischiano immediatamente di essere bacchettate – o stigmatizzate – dalla parte avversa.


Francesco Mattioli

Francesco Mattioli


Il problema della tossicodipendenza e del degrado sociale conseguente al degrado urbano non è viterbese e non è di oggi. Se ne parla come minimo dall’inizi degli anni sessanta: lasciamo stare la letteratura, spesso avanguardia dell’analisi sociale, basterà qui ricordare gli studi della cosiddetta Nuova Scuola di Chicago sui ghetti americani (Cohen, Matza, Lemert, ecc.) e quelli di Ferrarotti sulla periferia romana.

Che qualcuno la mattina si svegli e scopra che c’è un problema droga a Viterbo, che qualcuno se ne scandalizzi e qualcun altro impugni il vessillo della solidarietà non sposta di un millimetro il problema. E se poi qualcuno pensa che sia solo una questione classe, di povertà e di emarginazione sociale forse dovrebbe farsi un giro in certi salotti buoni e accuratamente protetti e ne vedrebbe delle belle, per nulla diverse da quel che accade al Sacrario o alle Fortezze; segno che la questione è trasversale e attiene a problemi molto più complessi che non possono essere affrontati né con la demagogia, né tanto meno con il perbenismo indignato di chi sente “pulito”.

Allora. La droga circola, perché lo “sballo” circola. Al tempo dei nostri nonni agiva l’alcol e, tra i ricchi, la cocaina; oggi all’alcol si aggiungono mille sostanze stupefacenti e un mercato che tra mafie tradizionali e mafie di importazione le rende praticabili a chiunque le voglia, innescando anche fenomeni di sfruttamento, ricatti, prostituzione, sessuale o meno che sia.

La nostra è una società competitiva, a parole solidale ma più spesso litigiosa. I perché sono tanti, e senza incedere a chissà quale complottismo ideologico non starò qui a parlarne; dirò solo che paradossalmente è il cascame inevitabile della complessità, del progresso, dei consumi, perfino del benessere.

La competitività porta a vittorie e sconfitte e le sconfitte si pagano, e chiunque di noi cerca di esorcizzarle. Molti lo fanno con successo, molti cadono in una depressione che l’incertezza, il disimpegno, e quindi l‘emarginazione e la disoccupazione, la mancanza di opportunità, di stimoli e di partecipazione possono rendere letale.

Chi cade nel degrado della propria vita si rintana nei luoghi in cui meno sente la differenza con il resto del mondo, i ghetti. Oggi i ghetti stanno nei luoghi più abbandonati della città; ieri le periferie rispetto ai centri del commercio e della direzionalità; oggi nei centri storici che non riescono più ad attrarre frequentatori e residenti. Nessuno si sognerebbe di bucarsi su una panchina di un centro commerciale, e neppure su quella di un parco pubblico frequentato, ma una via, una piazzetta, un angolo dimenticato dal via vai della vita quotidiana diventa il luogo ideale della propria intimità attanagliata dal bisogno di ”farsi”. E da qui, il disordine e il pericolo sociale dilagante in certi luoghi.

Quale risposta può dare la società? Andiamo oltre le espressioni di solidarietà verso chi soffre, che non dovrebbero avere colore politico o religioso e dovrebbero essere piuttosto il bagaglio umanitario di ogni individuo e di ogni collettività. Ci sono tre approcci, tre forme di prevenzione, che pur differenti non si autoescludono, ma si integrano.

Il primo è quello della “prevenzione primaria”: fondamentale, necessaria, va all’origine del problema, agendo sull’integrazione sociale, sull’educazione, sulla rimozione delle forme di emarginazione, della povertà materiale e spirituale, sul degrado urbano. Una montagna altissima da scalare, che esige tempo, impegno, pazienza, investimento di lungo periodo nel sociale. Insomma, politiche sociali di lungo respiro: rilettura e riuso virtuoso dei centri storici, occupazione – specie giovanile – , cultura, coinvolgimento sociale. Può aiutare un cinema, un teatro, una parrocchia, un circolo culturale? Anche. Come può aiutare un’azienda che assume, una nuova politica urbanistica, uno sportello di ascolto che sia anche uno sportello di collocamento e di coinvolgimento sociale.

Il secondo è quello della prevenzione secondaria. Si chiama anche controllo sociale, perciò – senza enfatizzare e ricamarci più di tanto sopra – repressione. A qualcuno suonerà distopico, con motivi orwelliani o bradburyani, ma non siamo né nell’ottocento, né sotto il fascismo, e il controllo sociale praticato in democrazia si chiama sicurezza, rispetto per la collettività e le sue leggi. Questo tipo di prevenzione esiste in qualsiasi società, a meno che non si voglia vivere nelle foresta hobbesiana anarchica e violenta e agisce nell’immediato accanto alla precedente. Forse non risolve il problema, ma intanto garantisce sicurezza alla collettività. Perché la collettività non ha solo bisogno di giustizia, ma purtroppo anche di sicurezza. Avete presente il malato? Mentre ci si preoccupa che non si ammali più, nel frattempo si cura.

C’è poi la prevenzione terziaria, che è poco nota all’opinione pubblica, ma è molto promettente e su di essa si sta muovendo l’interesse degli amministratori e degli operatori. In un certo senso può sembrare la sintesi delle due precedenti: da un lato, fare terra bruciata intorno alla criminalità con forme di controllo integrate, sia di sorveglianza tecnologicamente avanzata, sia di presenza costante sul territorio; dall’altro, raccogliendo i soggetti bisognosi d’aiuto con immediate soluzioni, possibilmente sistemiche, comunque tampone. Si dirà che non c’è quasi niente di nuovo rispetto alle due precedenti modalità di prevenzione. Ma non è così; perché le prime due troppo spesso cedono all’estremismo ideologico, risultando di fatto illusorie o superficiali, mentre la terza esige un “progetto”, ampio, ricco, soprattutto operativo che coinvolge più da vicino l’intera collettività.

Certo, tra il dover essere e l’essere c’è sempre un bello stacco. Ma se le istituzioni, le organizzazioni, i liberi pensatori invece di indignarsi fra loro e di fare graduatorie di priorità cedessero il passo ad una più obiettiva analisi e ad una più concreta operatività sociale, forse eviteremmo Sagunto.

Francesco Mattioli


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29 giugno, 2021

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