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Viterbo - Il baritono e consigliere comunale interviene dopo gli ultimi fatti di cronaca e le dure prese di posizione

“Chi si buca in strada non è un problema di decoro urbano, ma un grido di dolore che dobbiamo raccogliere”

di Alfonso Antoniozzi
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Alfonso Antoniozzi

Alfonso Antoniozzi

Viterbo – Riceviamo e pubblichiamo – Era dagli anni settanta, ossia da quando le scalinate di Palazzo Papale ospitavano più tossici intenti a bucarsi che turisti, che non capitava di tornare a vedere nella nostra città persone che si sparano una siringa in vena sotto gli occhi di tutti.

A leggere la maggior parte dei commenti che fioriscono sui social, parrebbe trattarsi sostanzialmente di un problema di ordine pubblico e di decoro urbano, e in alcuni terribili casi si auspicano anche drastiche soluzioni che inneggiano alla giustizia sommaria. Leggo di pericolosità per i bambini che giocando potrebbero toccare una siringa abbandonata, e non nego che questa sia un’orribile possibilità. Leggo di viva preoccupazione per l’immagine della città. Leggo frasi di condanna per chi, in fondo, potrebbe secondo alcuni tranquillamente bucarsi a casa sua invece di farlo in pubblico.

Quello che non leggo, e che invece mi piacerebbe leggere, è la presa di coscienza di un problema che va ben oltre il mero senso del decoro e dell’ordine pubblico, ossia che il massiccio quanto evidente ritorno dell’eroina sulla scena della nostra città altro non è che il termometro di una città culturalmente ridotta ai minimi termini, di una comunità incapace di offrire ai nostri giovani dei punti di ritrovo, dei centri culturali, un cinema, un teatro funzionante e vivo, degli spazi dove incontrarsi, confrontarsi, magari anche scontrarsi, insomma dove sentirsi “parte” di qualcosa.

Se negli anni settanta l’inerzia atavica della politica culturale cittadina era in qualche modo sopperita dalla presenza di ritrovi politici di qualsiasi colore, dalla funzione sociale di oratori e parrocchie, da cori e compagnie amatoriali, persino da certi “muretti” e dunque lo squallore di una città che si oscurava dopo la chiusura serale delle saracinesche e che considerava militari di leva e studenti universitari come scomodi forestieri invasori veniva in qualche modo illuminato da iniziative private (il che, beninteso, non risolveva certo il fenomeno delle droghe pesanti, ma sicuramente aiutava a circoscriverlo) ora ci troviamo ad affrontare il problema di una città morta, visibilmente degradata e senza palliativi.

Di più: abbiamo una giovane generazione che, a differenza della nostra che veniva incoraggiata a sognare, viene in larga parte cresciuta con la convinzione che il lavoro non sia un diritto, che devono volare basso, tener giù la testa, che la città e il Paese sono quelli che sono e che bisogna accontentarsi.

E che, per triste carico, è più avvezza ad interagire virtualmente che nella vita reale.

Alla droga, a quella droga lì, ci si rivolge quando si vuole fuggire. Quando il peso della vita diventa insopportabile. Quando ci si sente stretti, ingabbiati, condannati. Quando ci si guarda intorno e il degrado (culturale, sociale, ambientale) ci soffoca. Quando l’essere umano, sia esso cittadino italiano o immigrato, si arrende perché non riesce a vedere sbocchi.

Non fa troppa differenza, in fondo, se a non essere accolti nella comunità sono un ragazzo o una ragazza italianissimi o se vengono dall’altra parte del mondo: quando la vita ti sbatte in un angolo c’è chi trova il coraggio di reagire e chi si perde tentando di evadere come può, di stare bene magari per un attimo solo.

E l’eroina, quella merda lì, ti fa stare benissimo. Come l’alcool, del resto, altra merda però legale.

Ecco, noi come comunità secondo me dovremmo riuscire a capire che se si esce di casa e ci si imbatte in gente che si buca, bisogna essere talmente lucidi e umani da raccogliere quel grido di dolore e non relegarlo a mero problema di decoro urbano. Perché un ragazzo che si buca in pubblico invece che a casa sua, magari non lo sa ma sta gridando aiuto.

Noi, come movimento, ci siamo a lungo sforzati di capirlo e quando era possibile avere una sede, prima della pandemia, ogni settimana avevamo un punto di accoglienza per combattere le dipendenze. Qualsiasi dipendenza. Una goccia nel mare, ma il mare è formato da gocce.

Facciamo lo sforzo di capire che se l’eroina torna a circolare a questo modo, significa che sempre più gente non vede sbocchi. Significa che il degrado esteriore, le erbacce che ci invadono, i monumenti che si sgretolano, le fontane ormai aride e sbiancate, la quotidiana lotta tra fazioni dentro e fuori il mondo virtuale, l’assenza di una vita culturale cittadina, di prospettive, di luoghi di socializzazione, di empatia, di accoglienza, di sorrisi, insomma il lento spegnersi del senso stesso di “comunità”, sta diventando degrado interiore e sta uccidendo i sogni, le speranze, il futuro, la vita dei nostri ragazzi. Nostri, perché vivono tra noi.

Alfonso Antoniozzi
Consigliere comunale Viterbo 2020


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25 giugno, 2021

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