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Giorno della memoria - E' la storia di Irenio Pennesi raccontata dalla figlia Anna - Questa mattina in prefettura la consegna delle medaglie d'onore agli italiani deportati nei lager - FOTO - I RACCONTI

“Una sola cosa raccontava mio padre, la fame sofferta e di come riuscì di nascosto a farsi una scorpacciata di bucce di patate”

di Daniele Camilli
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Viterbo – “Una sola cosa raccontava spontaneamente mio padre: la fame sofferta e di come riuscì una volta, di nascosto, a farsi una scorpacciata di bucce di patate”. Lui si chiamava Irenio Pennesi ed è una delle cinque persone cui questa mattina il prefetto di Viterbo Giovanni Bruno ha consegnato la medaglia d’onore ai cittadini italiani, militari e civili, deportati ed internati nei lager nazisti. A raccontare la sua storia la figlia Anna. In sala Coronas, piazza del comune, Viterbo, sede della prefettura, e in collegamento on line con il sindaco della città Giovanni Arena, il presidente della provincia, Pietro Nocchi, il questore e i rappresentanti delle forze militari e dell’ordine.


Viterbo - Le figlie di Ireneo Pennesi

Viterbo – Le figlie di Ireneo Pennesi e il prefetto Giovanni Bruno


Le medaglie sono state conferite a Francesco Basile, Alessandro Cecchini, Domenico Cocucci, Irenio Pennesi e Andrea Porciani. Tutti internati militari. Nati o che hanno lavorato nella Tuscia durante l’occupazione nazista. Tutti deportati nei campi di concentramento tra il 1943 e il 1945. Persone che oggi non ci sono più. A ritirare le medaglie figli, figlie e nipoti.


Viterbo - La medaglia d'onore

Viterbo – La medaglia d’onore


“Mio padre, Irenio Pennesi – ricorda la figlia Anna – non parlava volentieri del periodo da internato che è durato dal 12 settembre 1943, giorno della cattura da parte delle truppe tedesche, al 12 ottobre 1945, giorno del rimpatrio. Rientrato in Italia è stato ricoverato presso l’ospedale della Croce rossa per una scheggia che aveva all’interno di una gamba e da lì trasferito all’ospedale Putti di Bologna, dove è restato per un anno e quattro mesi. E’ tornato a casa il 23 febbraio 1947. Sul retro di una sua foto di quel periodo leggo: Stalag 3 B 315451. Deduco che quella fosse la sua ‘casa’ e lui quel ‘numero'”.


Viterbo - Il prefetto Giovanni Bruno

Viterbo – Il prefetto Giovanni Bruno


“Ma dietro tutto a questo c’è l’uomo – prosegue la figlia di Irenio – un uomo dalla natura riservata e protettiva, che ci ha voluto risparmiare il racconto delle sofferenze subite. Una sola cosa raccontava spontaneamente: la fame sofferta e di come riuscì una volta, di nascosto, a farsi una scorpacciata di bucce di patate. Tutti questo, in un giovane di 20 anni – conclude Anna Pennesi – deve essere stato davvero devastante ma, paradossalmente, ha contribuito a farne l’uomo amorevole e onesto che noi figlie abbiamo conosciuto”.

Daniele Camilli


Medaglie d’onore, le storie lette in Prefettura

Francesco Basile
 
“Disarmato a seguito dell’ armistizio , rimase alcuni mesi a Rodi in campo non definito. Da testimonianze i circa 340.000 italiani internati subirono pressioni e ricatti per aderire alla Rsi. Rifiutando, fu tra loro che furono destinati a trasporti su navi verso la prigionia. Con altri 4200 perì sul Piroscafo Oria che partito da Rodi l’11/02/1944 naufragò il giorno successivo 12/02/1944 per una tempesta schiantandosi contro la piccola Isola di Patroklou (Grecia). Causa le inumane condizioni di carico stipati nella stiva pochissimi sopravvissero Francesco Basile scomparve in tale circostanza”.

Alessandro Cecchini
 
“Soldato della Settima compagnia Sanità, partì da Firenze il 10 settembre del 1942 per il fronte greco-albanese. Prestò servizio nell’ospedale militare di Elbasan e il 9 settembre 1943 fu catturato dai tedeschi.
Trasportato con treno merci in Bulgaria e imbarcato su barconi per il fiume Danubio fino in Germania,
fu internato a Norimberga nello stalag XIII D, dove venne impiegato allo sgombero macerie. Durante un bombardamento americano che durò più di 2 ore, si salvò insieme ad altri militari italiani
rifugiandosi in una pineta. A causa di una sentinella tedesca, che lo accusò di essere una spia, in quanto mio padre stava contrattando con un prigioniero di un campo adiacente a quello italiano, la vendita del suo orologio in cambio di patate, fu inviato al lavoro coatto in una fabbrica di mattoni (che lui chiamava  Heltesdolf). Fu liberato dagli americani nel mese di aprile 1945 e il 13 luglio 1945 rientrò in Italia, dove purtroppo non poté riabbracciare sua madre in quanto deceduta a causa del bombardamento americano di Vejano, il 5 giugno 1944. Tralascio i particolari della vita del campo dove i militari Italiani subirono la violenza fisica e psicologica i maltrattamenti la fame ed alcuni la morte”.

Leonardo Cocucci

“Nato a Baranello (CB) il 26 ottobre 1913. Richiamato alle armi nell’Aprile del 1941 mentre svolgeva le funzioni di medico interino a Castiglione in Teverina e destinato al Reggimento Cacciatori d’Albania. Catturato il 16 Settembre 1943 a Monastir in Albania. Internato nei campi di concentramento di Lemberg, Deblin, Stryj, tutti in Ucraina, dal settembre 1943 all’Aprile 1944, e quindi nel Campo di Hemer in Germania dall’Aprile 1944 al Giugno 1945, quando fu liberato dalle truppe Americane. Rientrato in Italia il 1° Luglio 1945, dal novembre del 1945 al 1979 ha esercitato la professione medica a Civita Castellana. Quando eravamo ragazzi nostro padre ci raccontava spesso episodi del periodo di prigionia, della fame e del freddo. Delle due camice nuove cedute ad un sergente tedesco in cambio di due pagnotte di pane duro che si fece bastare per tantissimo tempo, sbriciolandone un pezzettino al giorno nella zuppa acquosa che riceveva per pasto. O delle fasce per tener caldi i piedi ricavate tagliando delle strisce in fondo alle coperte in dotazione, fidando sul fatto che i tedeschi, quando controllavano, si limitavano a contare le coperte senza mai verificare quanto fossero lunghe. Ma un episodio mi è rimasto particolarmente impresso nella memoria. Nei primi tempi della sua prigionia fu internato, unico ufficiale, in un campo per sottufficiali e militari di truppa. I tedeschi chiesero ai soldati se erano disposti ad aderire alla Repubblica sociale e accettare di essere trasferiti in Italia o a lavorare in Germania presso strutture produttive industriali o agricole, con un trattamento molto migliore. Loro si consigliarono con l’unico ufficiale presente. Il parere di mio padre fu che, come militari, avevano giurato fedeltà al Re, che era il capo di stato legittimo dell’Italia, e quindi non potevano aderire alla Repubblica di Mussolini. I tedeschi, di fronte al rifiuto della stragrande maggioranza dei militari italiani identificarono il responsabile in mio padre e lo punirono rinchiudendolo per un certo tempo in cella, una baracchetta isolata dal resto del campo, senza riscaldamento e a razioni alimentari ancora più ridotte. E, ci raccontava nostro padre, i prigionieri russi che rientravano la sera dal lavoro coatto, passando davanti alla sua cella gli lasciavano dei semi di girasole per aiutarlo a sfamarsi. Nostro padre non era un eroe né un politico. Era un uomo religioso e sensibile, con un alto senso del dovere e del rispetto della parola data. E questo è l’insegnamento più profondo e convinto che ha trasmesso a noi figli”.

Irenio Pennesi

“Mio padre, Pennesi Irenio, non parlava volentieri del periodo da internato che è durato dal 12 settembre 1943, giorno della cattura da parte delle truppe tedesche, al 12 ottobre 1945, giorno del rimpatrio. Rientrato in Italia è stato ricoverato presso l’ ospedale della Cri per una scheggia che aveva all’interno di una gamba e da lì trasferito all’Ospedale “Putti” di Bologna, dove è restato per un anno e quattro mesi. E’ tornato a casa il 23 febbraio 1947. Sul retro di una sua foto di quel periodo leggo: Stalag 3B 315451. Deduco che quella fosse la sua “casa” e lui quel “numero”. Ma dietro tutto questo c’è l’uomo, un uomo dalla natura riservata e protettiva, che ci ha voluto risparmiare la narrazione delle sofferenze subite. Una sola cosa raccontava spontaneamente: la fame subita e di come riuscì una volta, di nascosto, a farsi una scorpacciata di bucce di patate. Tutto questo, in un giovane di vent’anni, deve essere stato davvero devastante ma, paradossalmente, ha contribuito a farne l’uomo amorevole e onesto che noi figlie abbiamo conosciuto”.


Fotogallery: La consegna delle medaglie

Articoli: “La città di Viterbo chiede perdono per la deportazione e per i crimini del nazismo e del fascismo” – Enrico Mezzetti: “Se il Giorno della memoria diventa un santino non serve più a niente” – Giovanni Arena: “Sarò a Porta della Verità per celebrare il Giorno della memoria”


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27 gennaio, 2021

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