Rave party a Valentano - Le considerazioni di Enrico Borghi, deputato del Partito democratico, in netto contrasto con la posizione di Bruno Astorre, segretario regionale del Lazio del Pd
Valentano – (c.g.) – Ci sembra utile pubblicare l’intervento di Enrico Borghi, deputato e segretario d’aula del gruppo del Partito democratico. Un intervento che ci appare giustamente complesso ed equilibrato. E soprattutto frutto di una analisi e comprensione della realtà dei fatti accaduti a Valentano. Una analisi in netto contrasto con il bambinesco intervento di Bruno Astorre, senatore e segretario del Pd del Lazio. – “Il “rave party” sul lago di Mezzano, con 10.000 persone accorse da tutta Europa per dar vita ad una occupazione illegale di terreni privati all’insegna dello sballo, della trasgressione e della ribellione nichilista, ha naturalmente innescato varie reazioni.

Enrico Borghi
Dalle parti della destra, con Salvini e Lollobrigida in testa che hanno parlato all’unisono come se il primo non fosse il segretario di un partito di governo che esprime anche un importante sottosegretario al Viminale, hanno caricato a testa bassa il ministro dell’interno, Luciana Lamorgese. E naturalmente hanno innescato una serie di reazioni, soprattutto sui social. Premesso che sul divano di casa siamo tutti virologi, esperti di geopolitica, allenatori della nazionale e soloni, la situazione del rave-party è stata gestita dalle forze dell’ordine al fine del contenimento del rischio. A parole tutti vorrebbero la pena di morte e l’esercito in questi casi, ma concretamente quando ti trovi 10.000 persone di quel tipo -sbronzi, fatti ed esaltati- davanti che fai? Fai come il Cile degli anni’70 o la Cina di oggi e carichi tutti sui camion militari a colpi di baionetta e sparando ad alzo zero? Schieri la cavalleria e dai corso ad una nuova carica di Balaklava?? Ti immagini novello Bava Beccaris, e spazzi via tutti a colpi di cannone?
È evidentemente impossibile. Dire come fa Salvini che si è lasciato correre è una bugia. Le forze dell’ordine in questione hanno fatto una scelta diversa, ed assolutamente analoga a casi simili (pensiamo al rave party dell’ottobre 2018, con 8.000 persone ammassate per tre giorni nella zona industriale di Nichelino, oppure al più grande “rave” d’Europa del 15 agosto 2018 nel maceratese): hanno scelto di contenere il rischio.
E vanno ringraziate per aver usato la testa, mentre altri soffiavano sul fuoco. Se avessero dato sfoggio di “machismo” -come imprudentemente vuole qualche leader politico- il rave sarebbe terminato come finì nel giugno di quest’anno un analogo caso in Bretagna: una guerriglia urbana con esplosioni, assalti e feriti e danni ancora maggiori. E in quel caso – c’è da scommetterlo – gli stessi che oggi gridano contro il Viminale accusandolo di essere blando, avrebbero urlato contro il Viminale urlando alla dittatura.
Dopodiché andrebbe aggiunto un tema: ci stiamo abituando – dopo anni di martellante campagna di destra – a ritenere che tutto si risolva a colpi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza. Persino per presidiare gli incroci nelle città ci siamo inventati “strade sicure” con l’esercito. Come se Roma fosse Kabul.
Il contrasto di un fenomeno come un “rave party” non può riguardare soli aspetti di ordine pubblico. Abbiamo una evidente questione socio-culturale -e, se è possibile, educativa- se 10.000 giovani si danno appuntamento illegale per ammazzarsi di droga, alcool e musica stordente, peraltro nelle ore in cui molti loro coetanei muoiono in Afghanistan e altri loro coetanei soccorrono i profughi. Questi episodi hanno sempre una matrice nazionale e transnazionale, e necessitano di comuni e coordinate azioni preventive che, attraverso adeguati strumenti giuridici, siano in grado di arginare fenomeni che non possono, sempre e comunque, riguardare i soli aspetti dell’ordine e della sicurezza pubblica. Si pensi al caso del rave party di Ceva, nel cuneese, che vide 250 denunciati, 15 a processo e una sentenza finale di assoluzione con l’affermazione -scritta nelle pagine di una sentenza- che un rave party è un esercizio del diritto garantito dall’articolo 17 della Costituzione sulla libertà di riunione.
Ecco. Il tema è più complesso, e richiede un concorso di azioni – legislative (se del caso), amministrative, preventive, culturali – per governarlo e contenerlo, e per evitare le scene da invasioni barbariche di questi giorni. È scorretto -sia funzionalmente che culturalmente- scaricare il peso sulla sola autorità di pubblica sicurezza. Perché magari così ci laviamo la coscienza sui social. Ma quei ragazzi di Mezzano oggi, come quelli di Ceva nel 2015, o del Vermenone nell’agosto 2018 e o di Nichelino dell’ottobre 2018, sono figli nostri, della nostra società. Ed evocare il pugno duro non ci sottrae dall’esame di coscienza.
E questo vale anche per i supercommentatori sulle cui testate in questi anni si è alimentato il brodo di coltura, delegittimante e anarcoide, dentro il quale la filosofia dei “rave” è germinata.
Altrimenti tutto finirà dentro il solito balletto.
– “Dov’erano il prefetto e il questore?”
– “Stavano applicando le disposizioni del signor ministro”.
– “Ah, e il ministro Lamorgese perché ha dato queste disposizioni?”
– “Perché le ha ereditate dal predecessore che aveva gestito un rave party a Nichelino nell’autunno 2018, e il più grande rave party d’Europa sulle montagne delle Marche nel giorno di ferragosto dello stesso anno”
– “Ah! E come si chiamava quel ministro dell’epoca?”
– “Matteo Salvini”
– “Ah! Ma è lo stesso che adesso urla alla tolleranza zero?”
– “Si!”
Ecco, evitiamo – almeno su questo- la commedia all’italiana. Perché è evidente che la differenza tra chi vuole dare una risposta reale alla giusta richiesta di sicurezza e di legalità che sale dai cittadini, e chi vuole solo cavalcarla, in fondo sta tutta qui. Ma chi la cavalca non risolve mai un problema. Lo pospone. Finché si ripresenta. Innescando una spirale perversa dove i problemi non si risolvono mai, ma alimentano sempre la cultura della paura e del risentimento.
Se siamo uno Stato, inteso come corpo sociale, come articolazioni di parte di un tutto unico, non possiamo pensare di ricorrere alle vie brevi, alle soluzioni dove la forza sostituisce il ragionamento e il manganello prende il posto delle azioni doverose. Dietro a 10.000 ragazzi che sfogano la loro repressione in questo modo, non possiamo non interrogarci su cosa nascondano certi atteggiamenti, e non possiamo far finta che nello specchio quell’immagine non rifletta anche un nostro fallimento.
Questo non significa affatto sociologismo o disarmo: è esattamente il contrario, perché ad una generica tolleranza e a un’invocazione generalista a “legge ed ordine” va sostituita una capacità di dove e come usare le nostre energie -istituzionali, sociali, politiche- per governare questi fenomeni.
Da anni si crede che con una progressiva pan-penalizzazione si risolvano i problemi (“Ci sono gli incendi? Aumentiamo le pene e buttiamo la chiave!” é solo l’ultimo esempio di un salvinismo che sull’Aspromonte ha perso il garantismo che sfoggiava sui banchetti dei referendum). L’altra faccia della medaglia di questa cultura è l’appalto di tutto alle forze di sicurezza: ci pensino loro a risolvere i problemi. E così sugli uomini e sulle donne in divisa vengono scaricati compiti non loro, mentre il teatrino della politica passa ad altro.
Serve un impianto differente. Serve una cultura della sicurezza collettiva, dentro la quale ogni articolazione sociale faccia la propria parte per contribuire alla soluzione dei problemi, alla prevenzione degli stessi e al benessere della nostra comunità.
Una cultura della sicurezza collettiva è la strada per cercare -insieme- la soluzione ai problemi. Ed è la strada del riformismo, alternativa e contrapposta al populismo. Anche sui rave party.
Enrico Borghi
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