Viterbo – Pieno low cost sfruttando i benzinai, nove le vittime che si sono costituite parte civile a fronte di un numero complessivo di 18 parti offese, un’altra delle quali, pur non essendosi costituita parte civile, ha comunque nominato un avvocato per essere rappresentata al processo.
Si è aperto così, ieri davanti al giudice Francesco Rigato, il giudizio immediato a carico di Vincenzo e Charles Salvatore Maria Salzillo, padre e figlio di 63 e 28 anni, agli arresti domiciliari dallo scorso 18 giugno. Sono gli imprenditori “re delle pompe bianche” di Marcianise, in provincia di Caserta, dove affonda le radici l’impero Ewa, con circa 150 aree di servizio sparse in tutta Italia riconducibili al “gruppo”, forti di prezzi sempre super competitivi.
A spese dei lavoratori, almeno secondo le indagini di squadra mobile e guardia di finanza, coordinate dal sostituto procuratore Massimiliano Siddi, sfociate nel blitz di cinque mesi fa. Delle nove parti civili pronte a chiedere i danni, 6 sono assistite dall’avvocato Carlo Mezzetti. Gli imputati sono invece difesi dall’avvocato Andrea Castaldo del foro di Salerno, ieri sostituito dalla collega Federica Porroni del foro di Viterbo.
Assunti con contratti part time, ma costretti a lavorare di fatto fino a 12 ore al giorno, per 3 euro l’ora, 17 delle 18 presunte vittime sono cittadini extracomunitari con regolare permesso di soggiorno e uno solo è invece italiano, anche lui parte civile.
Un distributore Ewa a Viterbo
Costituite le parti civili il giudice, per motivi procedurali, ha rinviato al 16 dicembre l’udienza di ammissione prove. La difesa, nel frattempo, ha già sollevato una questione di competenza territoriale.
Il dottor Rigato, inoltre, ha sollecitato la procura a produrre, per quella data, richiesta e decreto di archiviazione relativamente a un terzo indagato, anche lui italiano, la cui posizione sarebbe stata stralciata già in sede di indagini preliminari.
I Salzillo senior e iunior, che non erano presenti in aula, tramite i propri legali hanno chiesto la revoca della misura di custodia cautelare tuttora in vigore nella loro abitazione in Campania, da dove sono stati già autorizzati a venire a Viterbo con auto propria a dicembre. Il giudice intanto si è riservato di decidere sulla revoca dei domiciliari dopo che il pm Siddi, neanche lui ieri presente in aula, avrà esaminato la richiesta e espresso il suo parere, favorevole o contrario.
L’avvocato Andrea Castaldo
Costretti a condizioni disumane: “O così o ti licenzio”
Tutti immigrati e quasi tutti originari dell’Africa subsahariana. Sono i 18 dipendenti che sarebbero stati costretti a condizioni di vita e di lavoro disumane dai due gestori degli otto impianti di carburante Ewa arrestati con l’accusa di caporalato. Costretti a turni massacranti, lavoravano fino a 12 ore al giorno per tre euro l’ora. I gestori avrebbero fatto leva sulla solita minaccia: “O così o ti licenzio”. E pur di non perdere il posto i benzinai avrebbero accettato anche di alloggiare nei gabbiotti dei distributori.
Il procuratore capo Paolo Auriemma, illustrando a giugno l’operazione “Petrol Station”, ha parlato di condizioni di vita durissime per i lavoratori, di “sudditanza, soggezione e inferiorità”, di “rapporti distorti di supremazia da parte dei datori di lavoro cui i dipendenti non potevano ribellarsi”, accertati nel corso di una meticolosa indagine durata un anno e mezzo, condotta dalla mobile a coordinata dal pm Massimiliano Siddi, partita a novembre 2019.
Reclutati fuori dei supermercati
Al fascicolo dell’inchiesta sono allegate anche numerose fotografie che immortalano i dipendenti alla stazione di servizio anche di notte, o fissi alla pompa di benzina per ore e ore al giorno, nonostante contratti di lavoro part time da 25 o 40 ore.
“I lavoratori, tutti in regola col permesso di soggiorno, venivano reclutati tramite passaparola oppure fuori dei negozi e supermercati dove chiedevano l’elemosina”, ha spiegato il capo della mobile Alessandro Tundo, che ha ereditato il caso dal suo predecessore Gian Fabrizio Moschini.
Pagati anche meno di tre euro all’ora
“Venivano assunti con contratti part time, ma poi erano costretti a lavorare ben oltre le ore stabilite, arrivando a percepire una retribuzione oraria anche inferiore ai 3 euro. Dallo stipendio, inoltre, venivano spesso decurtate somme di 100-200 euro per presunti ammanchi o con altre giustificazioni”, ha proseguito.
C’era chi viveva nel gabbiotto
“Addirittura ci sono casi di dipendenti che vivevano al distributore, in alloggi di fortuna ricavati nei gabbiotti delle stazioni di servizio, all’interno dei quali abbiamo trovato brande e elettrodomestici, a disposizione in pratica 24 ore su 24, con tutte le relative violazioni di legge che è facile immaginare. Fornelli elettrici, frigoriferi, stufette elettriche, in palese violazione della vigente normativa in materia di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro”, ha sottolineato il capo della squadra mobile.
Controllati in tempo reale tramite WhatsApp
“Per assicurarsi che i dipendenti stessero effettivamente lavorando, li obbligavano a fotografare le targhe delle auto che facevano rifornimento e poi a inviare gli scatti in tempo reale su WhatsApp”, ha detto ancora Tundo.
“Alcuni dipendenti – si legge nella nota della questura – a seguito di legittime lamentele per le ingiustificate trattenute dei loro salari, sono stati licenziati, mentre altri, per evitare di incorrere nelle stesse conseguenze, hanno rinunciato ad esternare le loro rimostranze, tollerando le condizioni lavorative sopra descritte in ragione del loro evidente stato di bisogno”.
Silvana Cortignani
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