Viterbo – Benzinai sfruttati alle pompe low cost, sale a 12 il numero delle parti civili su un totale di 18 parti offese individuate dall’accusa.
Tra le presunte vittime un solo italiano, mentre gli altri lavoratori sono tutti cittadini extracomunitari con regolare permesso di soggiorno, assunti nei distributori della catena Ewa, secondo l’accusa con contratti part time, ma costretti a lavorare di fatto fino a 12 ore al giorno, per 3 euro l’ora.
E’ ripreso così, davanti al giudice Francesco Rigato, il processo agli imprenditori campani Vincenzo e Charles Salvatore Maria Salzillo, padre e figlio di 63 e 28 anni, accusati di sfruttamento grave dei lavoratori, che nel frattempo hanno ottenuto la revoca degli arresti domiciliari cui erano ristretti dallo scorso 18 giugno. Revoca chiesta dalla difesa alla prima udienza del giudizio immediato, che si è aperto lo scorso 4 novembre.
Un distributore Ewa a Viterbo
Terminata la conta delle parti civili, le ultime delle quali si sono costituite ieri, la maggior parte assistite dall’avvocato Carlo Mezzetti, è stata la volta dell’ammissione delle prove, tra cui le chat e le registrazioni video che sarebbero servite a tenere sotto controllo i lavoratori.
Una curiosità viene dalla lista dei testimoni dell’accusa, tra i quali figura un (ex) terzo indagato, la cui posizione è stata nel frattempo archiviata, che il pm Massimiliano Siddi vuole sentire davanti al giudice. Si comincerà il prossimo 7 luglio con due dei poliziotti della squadra mobile della questura di Viterbo che hanno condotto le indagini.
Neanche stavolta erano presenti in aula gli imputati, i “re delle pompe bianche” di Marcianise, in provincia di Caserta, dove affonda le radici l’impero Ewa, con circa 150 aree di servizio sparse in tutta Italia riconducibili al “gruppo”, forti di prezzi sempre super competitivi.
I Sanzillo sono difesi dal professor Andrea Castaldo del foro di Salerno e dall’avvocato Silvio Ciniglio, presente in aula anche per il collega.
Il difensore Silvio Ciniglio
Padre e figlio, in particolare il padre, sono finiti già in passato nel mirino della magistratura, campana e non solo, per vicende legate alla catena di distributori di famiglia. Nel Lazio sono localizzati, in particolare, nelle province di Viterbo e di Latina.
Il figlio Salvatore, secondo l’accusa, avrebbe coadiuvato attivamente il padre nella sua attività imprenditoriale, con specifico riferimento proprio alla gestione del personale impiegato nei distributori di carburante.
Un anno prima dell’arresto, il 23 luglio 2020, sempre nell’ambito dell’inchiesta “Petrol Station”, nei confronti di Vincenzo Sanzillo era stato già disposto il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali, in quanto, in qualità di presidente e legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, avrebbe coordinato e sovrinteso a tutte le attività della società, impartendo direttive ai collaboratori per quanto concerne la gestione dei dipendenti dei distributori di carburante Ewa, dislocati nella provincia di Viterbo, di proprietà della società.
Costretti a turni massacranti
Tutti immigrati e quasi tutti originari dell’Africa subsahariana. Sono i 18 dipendenti che sarebbero stati costretti a condizioni di vita e di lavoro disumane dai due gestori degli otto impianti di carburante Ewa arrestati con l’accusa di caporalato. Costretti a turni massacranti, lavoravano fino a 12 ore al giorno per tre euro l’ora. I gestori avrebbero fatto leva sulla solita minaccia: “O così o ti licenzio”. E pur di non perdere il posto i benzinai avrebbero accettato anche di alloggiare nei gabbiotti dei distributori.
Reclutati fuori dei supermercati
Al fascicolo dell’inchiesta sono allegate anche numerose fotografie che immortalano i dipendenti alla stazione di servizio anche di notte, o fissi alla pompa di benzina per ore e ore al giorno, nonostante contratti di lavoro part time da 25 o 40 ore. Secondo l’accusa, i lavoratori, tutti in regola col permesso di soggiorno, venivano reclutati tramite passaparola oppure fuori dei negozi e supermercati dove chiedevano l’elemosina. Pagati anche meno di tre euro all’ora
C’era chi viveva nel gabbiotto
Secondo l’accusa ci sarebbero casi di dipendenti che vivevano al distributore, in alloggi di fortuna ricavati nei gabbiotti delle stazioni di servizio, all’interno dei quali sono stati trovati brande e elettrodomestici, a disposizione in pratica 24 ore su 24, con tutte le relative violazioni di legge. Fornelli elettrici, frigoriferi, stufette elettriche, in palese violazione della vigente normativa in materia di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Obbligati a fotografare le targhe
Per assicurarsi che i dipendenti stessero effettivamente lavorando, sarebbero stai obbligati a fotografare le targhe delle auto che facevano rifornimento e poi a inviare gli scatti in tempo reale su WhatsApp. Alcuni dipendenti, a seguito di legittime lamentele per le ingiustificate trattenute dei loro salari, sarebbero stati licenziati, mentre altri, per evitare di incorrere nelle stesse conseguenze, avrebbero rinunciato ad esternare le loro rimostranze, tollerando condizioni lavorative disumane in ragione del loro evidente stato di bisogno.
Silvana Cortignani
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