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Operazione Erostrato - Michele Prestipino (Dda) e il colonnello Giuseppe Palma: "Il sodalizio si era radicato sul territorio" - Nel mirino anche carabinieri e poliziotti: pedinati, gli sono state incendiate le auto - FOTO E VIDEO
Viterbo – Carabinieri – Giuseppe Palma e Federico Lombardi
Viterbo – Carabinieri – Il maggiore Marcello Egidio
Viterbo – (r.s.) – La mafia è anche a Viterbo. E c’è almeno da un paio di anni.
È dicembre 2016 quando i carabinieri del capoluogo della Tuscia danno vita all’operazione Erostrato, che ha portato all’arresto di tredici persone accusate a vario titolo di associazione di stampo mafioso. “È la prima volta che questo tipo di reato viene contestato a Viterbo “, sottolinea il comandante provinciale dei carabinieri Giuseppe Palma. “Fino a ora, in questa regione, infiltrazioni e presenze mafiose si registravano solo nel basso Lazio – evidenzia Michele Prestipino, procuratore aggiunto della Dda di Roma -. Non è più così. Infiltrazioni e presenze mafiose sono anche nella parte nord, fino a ora esente da questo tipo di fenomeni”.
L’organizzazione viterbese avrebbe avuto tutte le caratteristiche tipiche dell’associazione mafiosa: c’erano i capi e una decina di sodali. Questi ultimi, “totalmente assoggettati – svelano gli inquirenti -, erano piegati a un contesto gerarchizzato”. C’erano poi le estorsioni, le intimidazioni e il sistematico ricorso alla violenza. C’era il controllo delle attività economiche e del narcotraffico, quindi del territorio. C’erano gli incendi, i messaggi minatori corredati da proiettili, le teste mozzate di animali e l’esplosione di colpi d’arma da fuoco.
Il colonnello Palma la definisce “una spirale di violenza, messa in piedi da un sodalizio criminale ben strutturato”. Un sodalizio “dai forti vincoli – aggiunge Prestipino -, che si era radicato sul territorio ed era in grado di esercitare un potere criminale tale da assoggettare le vittime e condizionare le attività commerciali”.
Al vertice dell’organizzazione, secondo gli inquirenti, ci sarebbero stati Giuseppe Trovato e Ismail Rebeshi. “Trovato – spiega Prestipino – ha origini calabresi ed è legato da rapporti di parentela con importanti esponenti di una storica famiglia di ‘ndrangheta di Lamerzia Terme: la famiglia Giampà. L’associazione viterbese ha unito il metodo mafioso importato dal calabrese e la ferocia di Rebeshi”.
Il sodalizio non avrebbe guardato in faccia a nessuno. Nemmeno a carabinieri e agenti di polizia. “La loro colpa? Aver fatto il proprio dovere – afferma il maggiore Marcello Egidio, comandante del nucleo investigativo di Viterbo -. A un militare dell’Arma è stata incendiata l’auto per aver arrestato per droga persone vicine a Rebeshi. Due bottiglie incendiarie, che siamo riusciti a sequestrare in tempo, erano invece destinate a un agente della polizia di stato ‘responsabile’ di aver fatto controlli e verifiche amministrative nei compro oro di Trovato”. L’associazione avrebbe nutrito odio e profondo rancore nei confronti delle forze dell’ordine, i cui appartenenti sarebbero stati pedinati e osservati per studiarne le abitudini di vita e scoprire dove vivevano e quali mezzi utilizzavano.
L’indagine, inizialmente coordinata dalla procura di Viterbo (pm Fabrizio Tucci, oggi a Roma) e poi passata alla Dda capitolina, è stata “molto complessa. Anche perché – rivela il colonnello Palma – tra la popolazione viterbese c’era un clima di omertà, forse dettato dalla paura”. Ma il procuratore aggiunto Prestipino svela di più. “Dalle intercettazioni sono emerse una serie di contatti tra i componenti dell’organizzazione e comuni cittadini. Chi voleva giustizia si rivolgeva a questo gruppo, per far valere le proprie ragioni si rivolgevano a questo sodalizio criminale invece che allo stato e alle istituzioni. E questo è un motivo di grande allarme. Questa è una delle caratteristiche fondamentali delle associazioni mafiose, che cercano il consenso e cercano di stabilire legami e rapporti. Impadronirsi delle attività economiche è la porta d’accesso a questo sistema di relazioni. E anche in questo caso ci è stato dimostrato che dove si insidiano le mafie si inquina pure il tessuto sociale”.
Gli indagati
1. TROVATO Giuseppe, detto “Peppino”, 43enne originario di Lamezia Terme, da anni trasferitosi a Viterbo, dove gestisce tre Compro oro, con un ruolo di vertice nell’associazione smantellata;
2. REBESHI Ismail, detto “Ermal”, cittadino albanese di 36 anni, domiciliato a Viterbo, dove gestisce una rivendita di autovetture ed un locale notturno, anche questo con ruolo di vertice nel sodalizio;
3. PATOZI Spartak, detto “Ricmond”, cittadino albanese di 31 anni, residente a Vitorchiano, operaio, partecipe dell’associazione;
4. DERVISHI Sokol, detto “Codino”, cittadino albanese di 33 anni, residente a Viterbo, operaio, partecipe dell’associazione;
5. GURGURI Gazmir, detto “Gas”, cittadino albanese di 35 anni, residente a Canepina, operaio, partecipe dell’associazione;
6. LAEZZA Gabriele, detto “Gamberone”, 31enne, residente a Viterbo, operaio, partecipe dell’associazione;
7. OUFIR Fouzia, detta “Sofia”, cittadina marocchina di 34 anni, residente a Viterbo, compagna e dipendente di Trovato, partecipe dell’associazione;
8. GUADAGNO Martina, 31enne residente a Viterbo, dipendente di Trovato, partecipe dell’associazione;
9. FORIERI Luigi, detto “Gigi”, 51enne residente a Caprarola, titolare di un bar, partecipe dell’associazione;
10. PATOZI Shkelzen, detto “Zen”, cittadino albanese di 34 anni, residente a Viterbo, operaio, partecipe dell’associazione;
11. PAVEL Ionel, cittadino romeno di 35 anni, concorrente in alcuni delitti-fine;
12. PECCI Manuel, 29enne residente a Viterbo, titolare di un centro estetico, concorrente in un delitto-fine;
13. ERASMI Emanuele, 53enne residente a Viterbo, artigiano, concorrente in un delitto-fine.
Presunzione di innocenza Per indagato si intende semplicemente una persona nei confronti della quale vengono svolte indagini preliminari in un procedimento penale.
Nel sistema penale italiano vige la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio. Presunzione di innocenza che si basa sull’articolo 27 della costituzione italiana secondo il quale una persona “non è considerata colpevole sino alla condanna definitiva”.