Viterbo – “Una volta abbiamo assistito un bracciante indiano che lavorava in un’azienda di allevamento e dichiarava di non percepire un salario da almeno 3 anni. Percepiva cioè soltanto vitto e alloggio e qualche centinaia di euro ogni tre o quattro mesi per inviarli alla famiglia. E’ arrivato allo sportello perché un connazionale si è impietosito per le condizioni in cui versava. Era denutrito. Parlava a stento. Non aveva la forza per reclamare il salario perché, ci spiegò il suo amico, aveva terrore, terrore di essere rimpatriato senza denaro”.
E’ soltanto uno dei racconti che si possono leggere nel libro di Francesco Carchedi, pubblicato da Maggioli editore. “Vite capovolte – il titolo -. La tratta degli esseri umani. Pratiche di sfruttamento sessuale e lavorativo sul territorio laziale”. Un vero e proprio rapporto, un lavoro lungo e dettagliato che fa parte del progetto Rete antitratta della regione Lazio, cofinanziato dal dipartimento delle pari opportunità del consiglio dei ministri. Quasi 200 interviste a sindacalisti, giornalisti, avvocati, imprenditori, mediatori, operatori sociali, sacerdoti, suore, agenti di polizia, magistrati e braccianti.
Viterbo – Un bracciante agricolo in bici – Foto di repertorio
Un lavoro che, anche nella Tuscia, fa emergere, laddove è presente, un vero e proprio sistema, spietato, di sfruttamento della manodopera bracciantile, come è stato anche già evidenziato da diverse inchieste e operazioni delle forze dell’ordine nel corso degli ultimi anni.
“La paura di essere licenziati o di non trovare lavoro – spiega Carchedi, docente presso il dipartimento di scienze sociali dell’università La Sapienza di Roma – seppur malamente pagato, immobilizza questi lavoratori. Anche il caporale, dicono diversi intervistati, diventa una figura importante, a prescindere da come conduce il gruppo bracciantile che recluta alle sue dipendenze”.
Al riguardo, una delle intervistate che opera in uno sportello sindacale, dunque in continuo contatto con i braccianti agricoli, riscontra: “Si scoprono talmente tanti soprusi, interloquendo con essi e ascoltandoli attentamente, anche con mediatori linguistico-culturali, che è perfino difficile catalogarli. Ad esempio, capita molto spesso che arrivino braccianti per la verifica del salario, ovvero per capire se è conforme con quanto prevede il contratto sottoscritto”. La stessa intervistata continua: “scopriamo che il salario in busta paga ammonta, senza esagerazione, a 300 euro al mese, poiché il datore ha detratto ingiustamente sin dal momento dell’assunzione il vitto e l’alloggio. Ma nel contratto non risulta l’erogazione né del primo né tantomeno del secondo, anche perché il lavoratore perentoriamente afferma di abitare in un’altra casa insieme alla famiglia o con altri connazionali disposti teoricamente a testimoniare. In questo modo i braccianti perdono migliaia di euro, considerando che questa situazione è alquanto diffusa, senza possibilità di recupero se non con una denuncia circostanziata. Ma i braccianti stranieri rifiutano continuamente di denunciare. Preferiscono restare in silenzio, poiché pensano che è il costo da pagare per restare nel viterbese e continuare a trovare un’occupazione”.
Braccianti agricoli – Foto di repertorio
Altri intervistati, che ricoprono anch’essi una funzione che li pone direttamente in contatto con i braccianti, raccontano ancora casi “che – sottolinea Carchedi – appaiono inverosimili. Uno di questi ad esempio dice: ‘Abbiamo assistito un bracciante indiano che lavora in un’azienda di allevamento e dichiarava di non percepire un salario da almeno 3 anni. Percepiva cioè soltanto vitto e alloggio e qualche centinaia di euro ogni tre o quattro mesi per inviarli alla famiglia. E’ arrivato allo sportello perché un connazionale si è impietosito per le condizioni in cui versava. Era denutrito. Parlava a stento. Non aveva la forza per reclamare il salario perché, ci spiegò il suo amico, aveva terrore, terrore di essere rimpatriato senza denaro’. Anche in questo caso, sollecitato a denunciare dagli operatori, ha posto un netto rifiuto, nonostante avesse tutte le carte in regola per avere la protezione sociale. Continua la stessa intervistata: ‘Dopo aver ascoltato il percorso che poteva fare per essere protetto ha chiesto se tale percorso prevedeva un’attività lavorativa. Alla risposta negativa si è chiuso in se stesso e non ha più ascoltato quello che intendevamo spiegargli'”.
“Abbiamo avuto contatti con tre giovani braccianti – si dice in un’altra intervista nel rapporto promosso dalla Rete antitratta della regione Lazio – ci hanno raccontato di aver dormito per quasi un mese all’addiaccio con circa altre 300 persone, tutte di origine straniera. La mattina presto una parte di questi braccianti veniva scelta, occupata a giornata e trasportata da caporali presso le aziende della zona. La paga oraria era di 3 euro, per 12 ore. Quando ci hanno raccontato tutto questo abbiamo chiesto se volevano denunciare i caporali e i datori di lavoro. Di quest’ultimo non sapevano nulla, non lo conoscevano. Del caporale avevano paura. Chiedevano aiuto, ma non volevano esporre nessuna denuncia e non volevano neanche che si sapesse che erano venuti a chiedere consigli su da farsi presso la nostra struttura”.
Francesco Carchedi
Francesco Carchedi è docente presso il dipartimento di scienze sociali-Stess dell’Università di Roma La Sapienza. Studioso dei processi migratori, delle politiche sociali e dei servizi rivolti agli immigrati, nocche della tratta di esseri umani a scopo di grave sfruttamento sessuale e lavorativo. Oltre che per Maggioli, ha pubblicato anche per Franco Angeli, l’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil e Rubettino.
Un altro caso riscontrato dagli intervistati nella Tuscia e riportato nel libro pubblicato da Maggioli. Riguarda “un giovane nigeriano che ha lavorato come bracciante in un’azienda locale ma per circa 18 mesi non è stato mai pagato. Non ha ricevuto nulla. Mangiava in azienda, ma dormiva presso amici connazionali in una località vicina. Quando chiedeva il salario veniva sempre dissuaso a insistere perché sarebbe presto arrivato il saldo. Ma ciò non accadeva mai. Lo abbiamo incontrato lungo la strada del tutto intristito. Un altro operatore nigeriano lo ha accompagnato dal medico. Dopo qualche settimana ha raccontato piano piano la sua storia di sfruttamento. Abbiamo chiesto se voleva denunciare, in quanto la nostra associazione ha dei legali, ma non ha voluto”.
Infine, altre truffe, sono ravvisabili, a quanto rileva un’intervistata, “quando i datori di lavoro acquisiscono il denaro derivante dai sussidi di disoccupazione e dagli assegni familiari, poiché, invece di darli al legittimo beneficiario, li tengono per sé, impoverendo ancora di più i braccianti che coinvolgono per assolvere alle necessità produttive della loro azienda”.
Daniele Camilli
– “Tre euro l’ora per 12 ore di lavoro, così vengono sfruttati i braccianti della Tuscia…”
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